L’amicizia, la convivenza civile, la natura salvifica, la libertà sono i temi portanti di Yaya e Lennie – The Walking Liberty, il nuovo film d’animazione di Alessandro Rak prodotto dalla Mad Entertainment.
In un futuro distopico in cui la natura, ribellatasi all’uomo, ha preso il sopravvento e in un luogo non ben precisato si muovono Yaya (Fabiola Balestriere) e Lennie (Ciro Priello) alla ricerca della libertà.
«Pensavamo di parlare all’universo, di poter fare la voce grossa, ma quando la terra ha tremato, noi ci siamo fatti silenzio. Siamo figli di una giungla che ci tiene nel ventre, all’oscuro di tutto. La morte ci insegue dal primo giorno, ma anche lei si perde qui»
Il mondo così come lo conosciamo è finito. La natura ha preso il sopravvento ricoprendo il mondo con le sue piante, foglie e animali selvatici. Il pianeta è diventato una giungla abitato da nomadi e dall’Istituzione, un’organizzazione intenta a “civilizzare” tutto ciò che non può essere e non vuol essere ingabbiato in regole e legislazioni. In questo mondo Yaya e Lennie sono emblema di libertà e spensieratezza. Vivono liberi cantando e girovagando tra i boschi immersi nella bellezza che li circonda.
Un inno alla libertà perché la libertà è la premessa di ogni sana scelta di vincolo amoroso oltre che l’unica via che non porti all’ovvio e all’inesorabile. Un inno al passeggio, al viaggio, al paesaggio, che sono il respiro di ogni pensiero sano. Un inno al verde, che è vita e speranza (Alessandro Rak)
L’inizio del viaggio
Inizia nello Spazio, Yaya e Lennie – The walking liberty, per poi addentrarsi nei meandri della giungla selvaggia fino alla zattera dei due protagonisti. La pellicola è un tenero ritratto, profondamente umano, dell’amicizia tra una ragazzina coraggiosa e scontrosa e un gigante buono. Sempre insieme, uniti, pronti a difendersi e a sostenersi nei momenti difficili. Due orfani che stringono un legame più forte di quello del sangue creando una loro famiglia.
Due orfani in fuga dall’Istituzione che con la loro tecnologia e le loro armi vogliono ridurli alla stregua di schiavi. La rigida Istituzione, che impone la propria struttura di organizzazione sociale e dittatoriale al popolo libero della giungla strappando loro i figli. Figli privati dell’amore, dei legami, dell’infanzia per diventare numeri in un esercito che tenta di civilizzare e sottomettere il popolo che li ha generati. Un popolo non omogeneo, violento, diviso, ma consapevole dei cambiamenti climatici e unito nella speranza di libertà.
Guidati dal ricordo di Zia Claire, madre “adottiva” (Lina Sastri), e dalle sue parole confortanti, Yaya e Lennie iniziano così il loro viaggio verso la Terra della Musica. Un luogo dove poter vivere al sicuro, felici, cantando e ballando tra i fili d’erba.
«Noi siamo Yaya e Lennie gli spiritelli della foresta. Quando Lennie ha paura c’è sempre Yaya lì. E quando Yaya ha bisogno, Lennie c’è sempre»
E la loro vita è come quella di un filo d’erba e questo lo ha capito la giovane Yaya che preferisce continuare a fuggire piuttosto che seguire Andrea, ragazzo ormai plagiato dai dettami dell’Istituzione e che guarda con sguardo nostalgico l’umanità e la semplicità che è stato costretto a lasciarsi alle spalle.
Napoli, Maradona e Charlie Chaplin
Se ne L’Arte della Felicità (2013) e in Gatta Cenerentola (2017) vi erano dei riferimenti più espliciti alla città partenopea, in Yaya e Lennie i rimandi diventano più sottili. È in una Napoli post-apocalittica che si svolge la loro storia. La città emerge dalle viscere della Terra. In ogni angolo della giungla vediamo oggetti e luoghi che rinviano alla mente dello spettatore tutto il calore, il colore e la voglia di ribellione di una città ricca di tradizione da Piazza del Gesù, a San Gennaro, il Castel dell’Ovo fino al Maradona tatuato sul braccio di Raspoleòn (Francesco Pannofino), il rivoluzionario a metà tra Don Chisciotte e Che Guevara, che ha un’asino come destriero e la bandiera argentina a fargli da mantello e che stanco di vivere nel qualunquismo di una dittatura selvaggia e superficiale, cerca in tutti i modi di respingere quel diritto imposto dall’Istituzione e dal suo grigiore.
La domanda, allora, nasce spontanea: da dove possiamo ripartire per ricostruire una società migliore? Da Noi, perché
«Noi siamo quelli che vivono di quello che gli dà la foresta. Siamo come la libertà che avanza»
Il riferimento a Charlie Chaplin e al suo discorso ne Il Dittatore (1940) assumono tutta una serie di valori che stratificano maggiormente il discorso portato avanti dal regista su un cinema forse più grande dell’umano.
Un cinema creatore di sensi e significati che con forza immaginifica irrompono nel silenzio della foresta contro ogni qualunquismo e ogni dittatura, capace di riunire la collettività perduta con le sue parole e le sue immagini universali. E così l’utopia Chapliniana diventa l’utopia di Rak. Un’utopia narrativa, urgenza nel ribellarsi anche contro un certo tipo di cinema che si è consegnato alle masse perdendo la propria anima.
Rak fornisce un antidoto alla piattezza umana proprio lì, nel buio del bosco, su di un grande schermo illuminato da un fascio di luce, ricordando a tutti noi di abbattere i confini e le barriere che ci siamo e ci sono state imposte, semplicemente restando uniti e ribellandoci come i nostri Yaya e Lennie.