Liberamente tratto dalla fiaba omonima di Giambattista Basile, Gatta Cenerentola è un film noir, distopico e al contempo atto di denuncia e di amore verso la città di Napoli.
Rullo di tamburi, una voce dal megafono eccitata grida a gran voce: «IL POLO DELLA SCIENZA E DELLA MEMORIA UNA FAVOLA PARTENOPEA CHE FARÀ PARLARE PRESTO DI SÈ IN TUTTO IL MONDO» mentre scorrono cartoline di una Napoli bella, felice e speranzosa. Ologrammi di squali, cefali e orate fluttuano tranquilli nella cabina di una nave che sente il ricordo di chi ci è stato e lo traghetta verso un futuro migliore. La nave è la Megaride, che prende il nome da quell’isolotto che vide la fine del tragico mito della sirena Partenope e come l’isolotto, anche la nave vedrà la fine dei suoi abitanti.
Diversamente dal più blasonato film d’animazione disneyano, la storia non è la bella fiaba a lieto fine che tanto piace ai bambini. La Cenerentola di questa pellicola, la jatta, Mia, dall’onomatopeico nome che ricorda il miagolio del gatto, chiusa nel suo mutismo, dopo il tragico assassinio del padre Vittorio Basile (Mariano Rigillo), durante il farlocco matrimonio con la bellissima cantate Angelica Carannante (Maria Pia Calzone), per mano di Salvatore Lo Giusto (Massimiliano Gallo), è costretta a pulire il sangue versato dalla matrigna e dalle sorellastre.
Impotente e sola, Mia come un gatto si sposta per i condotti della nave ascoltando, guardando e ricordando le più turpi azioni di chi la abita e diventa custode dei loro segreti come la Megaride, al contrario, è essa stessa custode dei tiempe belle ‘e ‘na vota e testimone della loro tragica fine.
Napoli, ‘a munnezza, ‘a camorra e ‘e tarantelle
Un inizio pieno di speranze, un matrimonio, una gran festa, il sole entra splendete e si propaga nelle stanze diffondendo un calore che anche nei momenti felici non è quasi mai rassicurante, è soffocante, come se stesse preannunciando una sventura imminente. All’improvviso uno sparo, urla, pianti e passano quindici anni. La Megaride è diventata il fantasma di se stessa e delle persone che son dovute restare lì, ancorate al ricordo di finte promesse.
L’atmosfera lentamente cambia. Il sole non splende più. L’aria del porto di Napoli è stagnante, malsana. La cenere della munnezza bruciata, come se si credesse neve, si posa sui resti della nave che fu. La nave un tempo simbolo della Belle Époque è un relitto popolata da gente di malaffare, specchio di una città che, solo in apparenza, fa da sfondo, che non si vede, ma si sente forte in ogni corridoio, in ogni sussurro, in ogni dispiacere, in ogni grido di rabbia soffocato, nel mutismo di chi ha imparato a far vinta di non vedere, in ogni violenza subita, raffigurata e musicata dagli autori in quei personaggi stereotipi di se stessi.
É la città di ‘O Re Lo Giusto, che di giusto ha solo il nome che porta, è l’erba cattiva che cresce nella miseria e sfrutta le disgrazie della povera gente che ha davanti a sé un presente grigio. Napoli è la città della camorra, dei bordelli, della cocaina, delle puttane e delle tarantelle. Napoli è la capitale del riciclaggio e dello spaccio e Gatta Cenerentola è una pellicola che esorcizza stereotipi e pregiudizi di questa città e di questo popolo costretto a vivere nella miseria.
Gatta Cenerentola è una favola morale, è un atto di resistenza contro la violenza e la corruzione sociale nascoste dietro ‘o sol, ‘o mare e ‘a pizza.
Il “Polo della Scienza e della Memoria”
I registi Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone sono stati abili nel costruire una fiaba noir capace di essere il Polo della Scienza e della Memoria collettiva, così come si auspicava Vittorio Basile per la sua Megaride. La nave, forse vera protagonista della fiaba è come la città Napoli che ha memoria del suo passato e di chi ne ha fatto fortuna e sfortuna, ha memoria delle offese subite che si manifestano sotto forma di ologrammi “magici” e si mostrano a coloro che necessitano di ricordarle. Ologrammi come agnizioni che si svelano a Mia e Primo Gemito (Alessandro Gassman), guardia del corpo del fu Vittorio Basile, il “principe” della storia, il primo vagito che si alza contro l’ingiustizia e fa di tutto per salvare quel poco che resta di buono su quella nave alla deriva.
La nave è polo della scienza e della memoria anche per la bellissima Angelica, ma ciò che le riporta alla mente gli eventi passati non sono gli ologrammi, ma un merlo. Un merlo che non canta da ormai quindici anni perché il bene che cantava non esiste più. Ora c’è spazio solo per il dolore. Un dolore antico, autentico, primordiale quasi palpabile come se il suo personaggio fosse lì, davanti a noi, in carne e ossa, in tutta la sua fragilità di donna. Angelica non è l’angelo che ci si aspetta dal nome e dal volto, ma è una donna profondamente umana nata e cresciuta nella miseria e in essa ha continuato a vivere, aspettando invano il suo e vissero felici e contenti cantando sola e disperata .
Maschere e musiche archetipiche
Specchio di un contesto socioculturale che lega la sopravvivenza alla malavita, il film è costruito in modo tale da presentare allo spettatore non personaggi unici, ma maschere stilizzate, archetipiche di un modo di pensare e vivere tutto napoletano trasmesso da decenni dai medium audiovisivi.
Le musiche e le canzoni dei Foja, Guappecartò, Ilaria Graziano, Francesco Di Bella, i Virtuosi di San Martino, Antonio Fresa, Luigi Scialdone e Francesco Forni, alternando lo swing al neomelodico, spaziando dalla musica colta alla pop della tradizione napoletana, arricchiscono l’atmosfera malinconica di un film che ci racconta la tragica storia di un popolo già morto prima di nascere. Ci racconta di un mondo di spettri che cercano di sopravvivere nel cinismo e nella decadenza, nelle sporche strade della loro città fatte di cenere e sangue.
I tratti somatici spigolosi, non perfettamente delineati, si fondono alle canzoni cantate dalle tormentate maschere restituendo tutta la profondità del loro ricordo, del loro essere così pienamente umani in un mare magnum di cenere, munnezza e disperazione.
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