Giotto, nato a Colle di Vespignano, nei pressi di Firenze nel 1267, è considerato uno dei padri della pittura italiana.
Sappiamo che la sua attività non ha interessato solo la sua Toscana, ma anche altri centri importanti in cui ha realizzato opere incredibili come il ciclo di affreschi dedicati alla vita di San Francesco nella Basilica Superiore di Assisi o la Cappella degli Scrovegni a Padova.
E ancora Rimini, Milano, Roma e…. anche Napoli! Ebbene sì, il famosissimo Giotto verso la fine della sua vita lavorò per qualche anno alla corte di Roberto d’Angiò, molto probabilmente grazie alla famiglia Bardi, legata agli Angioini e alla corte napoletana, e per la quale affrescò la cappella di famiglia all’interno della Chiesa di Santa Croce a Firenze.
Chiamare in quegli anni Giotto a Napoli ad affrescare Santa Chiara significava non solo chiamare il pittore più celebre e stimato del momento, ma chiamare anche il pittore per eccellenza dei francescani, stringendo così in un’unica mossa rapporti con l’Ordine, con le famiglie dei propri banchieri e finanziatori e soprattutto con Firenze, città guelfa del Centro Italia che si era data “in signoria” al duca di Calabria, ovvero Carlo d’Angiò, figlio del re Roberto.
I luoghi dell’arte giottesca a Napoli
Giotto giunse a Napoli nel 1328 e vi restò cinque anni, fino al 1333. In questo periodo lavorò in due contesti cittadini molto importanti per la casata angioina: la Chiesa di Santa Chiara, che fu il progetto ad iniziare per primo nel 1328 e il Castel Nuovo, il cui cantiere venne avviato nell’estate del ’29. I due progetti quindi continuarono parallelamente grazie anche alla grande organizzazione della bottega giottesca.
Mentre per i lavori del cantiere di Castel Nuovo possiamo contare su un’ampia documentazione che ci riferisce anche i costi dei materiali e le paghe della bottega, l’opera di Santa Chiara non è documentata. Le informazioni che abbiamo derivano da fonti a cavallo tra ‘400 e ‘500 che concordano nel dire che le decorazioni della chiesa sono opera di Giotto.
Le fonti
Prima di Vasari, ne parlano il Libro di Antonio Billi, il cosiddetto Anonimo Magliabecchiano e il Gelli, ma una delle fonti più chiare è un testo redatto dall’umanista napoletano Pietro Summonte, che afferma:
“Sono pure in questa città alcune pitture di man propria di Iocto, come è nella ecclesia delle monache di Santa Clara: quale ecclesia è tutta pinctata di sua mano”
Tutte queste testimonianze sono datate in un periodo storico in cui gli affreschi dell’artista dovevano essere ancora ben conservati, dato che sono precedenti ai vari disastri che hanno visto la chiesa protagonista. Ricordiamo, infatti, il terremoto del 1456 e gli incendi del secolo successivo; i rifacimenti del ‘600 che interessarono la maggior parte delle cappelle interne alla chiesa, e i restauri del ‘700 per opera di Antonio Vaccaro e nell’800 di Nicola Montella, che modificarono completamente la fabbrica ecclesiastica anche esternamente.
Veramente Giotto?
I primi dubbi sulla reale natura del ciclo giottesco iniziarono già a metà ‘800 e successivamente, nel 1925, Nicolini leggendo il testo di Summonte ne trasse la conclusione che quando parlava di “ecclesia delle monache” doveva riferirsi solo all’oratorio interno e quindi al coro, e non alla chiesa nella sua interezza. Nicolini inoltre aggiunge che sarebbe stato impensabile finire quest’opera in soli quattro anni, prendendo anche in considerazione che contemporaneamente era attivo anche il cantiere in Castel Nuovo.
Nel 1943, durante la seconda guerra mondiale, i bombardamenti e il successivo incendio, rivelarono tracce di affreschi trecenteschi sia all’interno della chiesa, sia nel coro.
Il Morisani, che per primo si interessò e scrisse in merito a questi ritrovamenti, non si discostò però dal parere di Nicolini. Giudicava i frammenti ritrovati come una generica prova dell’esistenza di affreschi trecenteschi che ricoprivano interamente la chiesa principale, ma continuava a considerare frutto della bottega giottesca, solo gli affreschi del coro.
Gli affreschi a Santa Chiara
Il coro delle monache è un grande ambiente di forma rettangolare a tre navate, sostenuto al centro da due enormi pilastri e coperto ai lati da volte a crociera. È un ambiente di minor altezza rispetto alla chiesa ed aggiunto a questa probabilmente nel corso dei lavori, ma sostanzialmente coevo ed unito. In realtà i frammenti superstiti della decorazione giottesca interessano una sola parete del coro, quella cioè alle spalle dell’altare maggiore. Ancor più nello specifico, interessa solo la parte centrale di quella parete, ai lati del grande finestrone. Una porzione decisamente più modesta rispetto a quella riportata dalle fonti, e che doveva ricoprire 180 o 190 metri quadri.
I resti frammentari non ci danno la possibilità di capire con certezza cosa fosse rappresentato in questi affreschi. Di certo un Compianto del Cristo deposto e un Calvario, giudicabili anche dalle tracce rimaste. La scena del Compianto doveva occupare la parte bassa della parete destra del finestrone, ma l’estremo grado di lacunosità non lascia comprendere con assoluta certezza se essa fosse completa oppure parte di un affresco più ampio esteso anche aldilà della finestra. Nella porzione di parete a sinistra del finestrone, invece, Giotto avrebbe rappresentato la scena della Crocifissione, andata persa.
La Cappella Palatina di Castel Nuovo
Gli affreschi della Cappella Palatina della reggia angioina di Castel Nuovo, furono la prima opera di Giotto a Napoli a comparire nelle fonti del tempo, come le Cronache di Bartolomeo Caracciolo, e ad avere un’esplicita testimonianza documentaria. Si attesta, infatti, che il re Roberto aveva avviato questa impresa quando Giotto era in città già da qualche mese, stanziando le somme necessarie alla decorazione sia della Cappella Palatina, appunto, ma anche di quella segreta.
La decorazione della Cappella Palatina riguardava un perimetro di circa 1800 metri quadri e in origine doveva consistere in un ciclo di affreschi su storie del Vecchio e Nuovo Testamento, ma purtroppo quest’opera ebbe vita davvero breve. Infatti fu distrutta intorno al 1470, sotto il regno di Ferrante d’Aragona. L’unico possibile testimone oculare è l’umanista Pietro Summonte che non solo ebbe la fortuna di vedere la cappella affrescata, ma ne visse anche la distruzione. In una lettera del 1524 indirizzata all’amico veneziano Marcantonio Michiel scrive:
“Dentro la cappella del Castelnuovo era puntato per tutte le mura, di mano di Iocto, lo testamento vecchio e nuovo, di buon lavoro. Poi, ad tempo del re Ferrando Vecchio, un suo consigliere, poco bon iodice di cose simili, estimandole poco, fe’ dar nuova tunica ad tutte quelle mura: lo che dispiacque e dispiace anco oggi ad tutti quelli che hanno alcun iudicio”.
Degli affreschi della Cappella Palatina restano solo tracce frammentarie che si concentrano soprattutto negli sguanci dei sette finestroni, che originariamente dovevano essere otto, prima dell’ampliamento della Sala dei Baroni. Tutti i finestroni presentano negli sguanci due larghe fasce piane decorate. Una delle due fasce inquadra teste virili affacciate in cornici esagonali o circolari, l’altra è decorata invece con ornati vegetali su fondo scuro.
Altre opere
Un documento del 1331 attesta che Giotto oltre a questi affreschi, lavorò anche ad un dipinto d’altare destinato sempre alla Cappella Palatina e altri affreschi a completamento di una decorazione già esistente nella Cappella Segreta che andò distrutta, o meglio “riempita” con materiali di risulta durante il periodo aragonese.
Giotto realizzò anche un ciclo che raffigurava “Uomini illustri dell’antichità e dei loro amori“ nella Sala Grande del palazzo, ma anche quest’opera durò poco a causa delle vicende strutturali della sala in questione.
Potrebbe interessarti:
L’incendio e il falso storico di Santa Chiara
Chiostro di Santa Chiara: la spiritualità del luogo
La sagrestia Vasari: una piccola perla rinascimentale