Tra i grandi artisti del verismo artistico napoletano, assieme a Gemito, Tito Angelini, Stanislao Lista è giusto annoverare anche Achille D’Orsi.
Schizzi di verismo
Nato a Napoli a metà del XIX secolo e iscrittosi al Reale Istituto di Belle Arti di Napoli nel 1857, Achille D’Orsi si è distinto come uno dei più importanti scultori della seconda metà del XIX secolo. La sua formazione artistica è dovuta a Tito Angelini, sculture di formazione classica, ma aperta anche alle idee dei giovani come Achille inclini a trovare una propria via verista e andando a esplorare anche “ciò che non era bello intrinsecamente, ma che era bello perché brutto”.
Tutta la sua prima attività artistica è stata orientata a una produzione che passando da una base espressamente di matrice romantica andava verso un verismo spinto con forti legami con la Società promotrice napoletana con cui espose per diversi anni tra gli anni ’60 e ’70 dell’Ottocento. La sua produzione fu prevalentemente, in questa prima fase, di terracotte di piccole dimensioni, per poi orientarsi verso sculture di dimensioni e materiali diversi. La scelta di D’Orsi iniziò a mutare verso la scelta di materiali più grezzi e irregolari in cui
giocare con i contrasti di luce e di tonalità e qualità cromatica della materia.
D’Orsi e soggetti “diversi”
I soggetti verso cui si orientò lo scultore con il tempo furono quelli scabrosi o quanto meno popolani, cosa a cui si avvicinò con Gemito, scugnizzi, ambulanti, persone del popolo erano i veri protagonisti della nuova arte che, dai grandi e aulici protagonisti dei secoli precedenti, si stava rivolgendo verso chi era rimasto in ombra per tanto tempo: l’uomo comune.
Dal 1878 in poi D’Orsi divenne anche libero docente presso l’Accademia di Belle Arti di cui poi divenne preside nel 1902. Durante tutta la sua carriera espose nelle più importanti esposizioni d’Italia e all’estero ottenendo numerosi riconoscimenti. Nonostante i risultati importanti della sua carriera l’ultima parte della vita di D’Orsi, dalla Grande Guerra alla morte nel 1929, furono segnati da una certa condizione di indigenza che costrinsero l’artista a riprendere in mano l’attività di docenza in età avanzata.
I parassiti
La ricerca di soggetti comuni e il connubio con una ricerca del mondo classico sono ben sintetizzati all’interno de I parassiti. In questa scultura D’Orsi portò avanti un discorso artistico in cui il mondo antico era solo un pretesto esteriore per ricollegarsi a un’idea di rielaborazione del soggetto in cui vi è:
- un chiaro riferimento al mondo classico con un gesso patinato a bronzo con l’intento di sembrare una scultura antica come quelle che venivano rinvenute negli scavi di Pompei e Ercolano;
- l’idea di un mondo decadente come quello dell’Impero romano dopo i fasti del Principato;
- una nuova manipolazione del materiale che prende e si presta a un soggetto che deve suscitare un qualcosa nello spettatore in netto contrasto con quelli che dovrebbero essere “i principi dell’epoca rappresentata”.
Questi punti vengono ben mescolati da D’Orsi: il soggetto de I parassiti sono due soldati romani ubriachi e assonnati su di un triclinio. Quello sulla sinistra seduto e addossato allo schienale, l’altro direttamente coricato sul divano, uomini che avrebbero dovuto rappresentare la gloria e la forza di romana vengono mostrati come il suo più grande fallimento.
Gli uomini rappresentati, più che sembrare oggetto di vanto di Roma sembrano un qualcosa di cui non andare molto fieri, qualcosa che repelle e imbarazza, un effetto sgradevole dato non solo dal soggetto in sé, ma anche dal loro essere realizzati in maniera grezza, potremmo dire ruvida, in cui la sgradevolezza è non solo emozionale, ma anche materiale.
Un essere sgradevole alla vista che però rende il soggetto ancor più vero perché non è idealizzato, come ci si potrebbe immaginare il soldato romano, molto poco “umano” per l’epoca, ma bensì molto terreno in questo caso e ancor più vero, reale.
Diversamente bello
La critica dell’epoca identificò quest’opera di D’Orsi come una delle più belle perché capace di suscitare una serie di sensazioni contrastanti e avverse tra loro, un prodotto nuovo e d’avanguardia in cui il soggetto era sensibilmente reale, vicino alla realtà delle cose, vero.
L’opera di Achille D’Orsi in questo caso era un’opera che piaceva proprio perché andava contro l’dea del piacere a ogni costo, era un’opera così,
di quella maniera che trascende la bellezza meramente estetica
che già all’epoca, siamo nel 1877, iniziava a dare un effetto di stantio. Sulla base di ciò è possibile dire quindi con certezza come D’Orsi in questo caso fosse alla ricerca di un bello che si manifestasse intrinsecamente al soggetto, indipendentemente dalla bellezza del suo essere bello.
Nella prossima puntata ci occuperemo di Armodio e Aristogitone.
Potrebbero interessarti anche:
Una personale per Michele Cammarano: la breccia di Porta Pia