
Luca Cacciapuoti, meglio conosciuto come Arsenyco, è un fotografo napoletano che ha fatto della trasgressione la sua firma d’artista. Negli scatti di Arsenyco c’è tutto ciò che non ci si aspetta, in un continuo mix tra arte e provocazione con l’obiettivo di suscitare sensazioni in chi guarda. Un sublime romanticismo, un delightful horror come direbbe Burke.
Rolling Stone definisce la sua fotografia come “un linguaggio armonico tra melanconia e trasgressione”. Noi del Corriere di Napoli l’abbiamo intervistato e ora non ci resta che alzare il sipario!
-Ciao Luca e grazie per aver accettato il nostro invito: come stai e come hai vissuto il complicato 2020?
-Ciao e grazie a voi per la possibilità di raccontarvi e raccontarmi chi sono.
Questo 2020 è stato un anno complicato da definire, unico nel suo genere e pieno di sbalzi d’umore. Per quanto il cambiamento radicale che questa pandemia ha causato mi abbia entusiasmato facendomi tornare a credere in un futuro generale migliore, ora mi ritrovo a soffrire della monotonia che questi giorni ci chiedono di affrontare, comprese le limitazioni che nel privato incidono sul mio stato d’animo, e nella pratica, sulla mia produzione.
Se prima il futuro era difficile da immaginare, ora mi è impossibile… ma questo non significa che non ci sia e che non possa essere roseo.
-Partiamo da una domanda fondamentale: da dove proviene il nome d’arte Arsenyco?
-Il nome nasce da vari eventi e coincidenze nel mio personale.
Al pubblico lo presento più semplicemente come un veleno, un veleno senza odore e senza sapore, usato per uccidere dall’interno senza lasciare traccia (tra le varie ipotesi della morte di Napoleone, c’è anche quella di avvelenamento da arsenico). Questa cosa mi ha sempre riportato ad una sensazione di romantico, a qualcosa che ci mangia da dentro.
-Masochismo, egoismo, sogni, anestetici, introspezione, teatro sono le parole d’ordine del tuo essere. Da dove nascono questi fondamentali?
-È la condizione in cui vivono i personaggi (e le storie) che creo.
La propensione alla malinconia, sognando per se stessi una forma di perfezione irraggiungibile e gli escamotage che usiamo per distrarci dalla nostra posizione inferiore rispetto a quello che riusciamo ad idealizzare, lo spazio che occupiamo tra il mondo che vorremmo e il mondo che abbiamo. E allora la capacità di sentire e di analizzare i sentimenti e tutte le sensazioni che viviamo, ricercando in loro un motivo.
Il teatro come mondo tra i mondi, dove mettere in scena tutto questo. Un bisogno, una finzione, ma entro quali limiti?
-Come ami definirti?
Denso.
-Quando e come mai hai cominciato? Quando hai scoperto questo talento per l’arte?
-Con la fotografia instaurai un rapporto ingenuo, prima curiosità e poi passione. Cominciai a praticarla solo ed esclusivamente per me stesso, senza pretese. Acquistai la prima macchina fotografica all’età di 18 anni, e ancora oggi penso che sia stato solo un mezzo d’espressione, qualcosa che mi ha aiutato (e aiuta) ad esprimermi.
La macchina fotografica fu semplicemente il mezzo più intuitivo e veloce che mi trovai per le mani negli anni in cui le esperienze da danzatore voltavano al termine, ma la mia speranza è sempre quella di indagare nuovi mezzi, andare oltre. L’arte cominciai a studiarla presto, prima con la danza, poi con il liceo artistico, e in ultimo con l’Accademia di Belle Arti di Napoli. Quello che vogliamo definire talento forse è sintomo di un carattere introspettivo.
Cosa cerchi di comunicare tramite le tue opere? Qual è la potenza del binomio frase-immagine?
-Il paradosso dell’essere umano, l’ipocrisia e le contraddizioni, il significato di romanticismo senza etica o morale. L’aggiunta del testo approfondisce o mette in crisi quello che gli occhi vogliono vedere nell’immagine di primo impatto. Questo mi permette di essere più preciso nel portare lo spettatore esattamente dove voglio, verso una riflessione più accurata.
-Qual è il tuo rapporto con i social? Pensavi di diventare così celebre?
-Ho cominciato a credere nel mio potenziale dopo tante altre persone a me vicino, e senza Instagram forse non avrei perseverato su questa strada. Il rapporto e il supporto che ho con il mio pubblico è il motivo per cui non mi vergogno di mostrare e continuare pubblicamente con quello che faccio. Non so dire se mi aspettavo o meno questo successo, so che al momento ne vorrei sempre di più, e che un tempo sentivo di avere qualcosa, ma non ero sicuro potesse piacere.
-L’ingrediente segreto: come realizzi e immagini le tue opere?
-Prendo spunto dalla mia vita privata, dalle risposte e dalle domande che mi pongo quando mi analizzo. L’introspezione come dicevo, è un aspetto fondamentale. La capacità di indagare quello che sento.
La sensazione di essere incompreso mi spinge a ricercare altri metodi per poter esprimere precisamente cosa sento e penso, tra questi la fotografia.
-Progetti futuri? Ci saranno collaborazioni con qualche artista e/o ente?
-Il 2020 non mi ha lasciato immaginare più di tanto, ho idea di quello che vorrei cambiare e migliorare, ma questo stato di immobilità generale mi fa avvilire ogni qual volta provo a pensare ad un come riuscire in questo sviluppo.
Insomma, nulla di definito in programma, d’altronde, a grandi linee, è sempre stato così fino ad ora.
-Una chiusura finale: cosa ti auguri per il nuovo anno appena iniziato?
Da persona che ama l’adrenalina di radere al suolo e l’entusiasmo poi di ricostruire,
mi auguro di trovare presto un terreno solido perché lì dove c’era una capanna,
voglio costruirci una casa,
un palazzo,
un castello.
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