Una nuova rubrica
In questo momento particolare per tutti abbiamo deciso di inaugurare una rubrica dedicata alla storia dell’arte, alle opere e gli artisti presenti nei musei di Napoli. L’idea di questa rubrica intitolata “Una personale per” è quello di mettere in evidenza tante opere d’arte conosciute e non che magari il grande pubblico non ha idea si trovino qui da noi cercando, cercando non solo di divulgare ma anche invogliare Voi lettori verso il mondo della Cultura e dei Beni Culturali che ha visto tempi migliori e che ha bisogno del nostro supporto. Quello che vedremo/leggeremo nelle prossime “puntate” saranno tanti piccoli tasselli di quella che è la nostra storia comune, molte persone non ci pensano ma dietro quello che è un’opera come un dipinto si nasconde la storia dell’artista, il committente, le vicissitudini dietro la sua creazione e quelle che hanno portato quest’opera d’ingegno fino a noi. Tutto questo fa parte del nostro bagaglio culturale e del nostro essere.
Giuditta che decapita Oloferne
Per iniziare questa rubrica ho scelto di concentrarci su un dipinto di Artemisia Gentileschi, “Giuditta che decapita Oloferne” (1612-13) conservato al Museo di Capodimonte. In questo dipinto possiamo osservare un soggetto diretto e uno sottinteso, anche se visto che è sotto i nostri occhi non lo è poi così tanto. Giuditta che decapita Oloferne riprende una scena presente nel Libro di Giuditta, dove l’eroina ebrea riesce a intrufolarsi nel campo nemico e a circuire e uccidere il generale Oloferne. Visto che l’opera è stata realizzata nel 1612-1613 potrebbe avere un significato molto più profondo di quello che sembra rappresentando il sentimento di rivalsa di Artemisia verso Agostino Tassi reo di stupro verso l’artista.
Un dipinto di denuncia
Artemisia con questo dipinto segue un soggetto che era già presente nell’iconografia del periodo, Caravaggio aveva realizzato “Giuditta che decapita Oloferne”, oggi a Palazzo Barberini a Roma, nel 1602 e la ragazza potrebbe aver avuto la possibilità di osservarlo e farsene un’idea personale. Rispetto all’iconografia già rinnovata da Caravaggio, la pittrice fa diversi passi avanti, il dramma biblico racconta di una Giuditta che uccide Oloferne aiutata dall’ancella con cui scappa poi al campo ebraico con la testa del nemico, generalmente veniva rappresentata la scena della fuga, non quella dell’atto, la decapitazione.
Abbiamo già detto di come la tela sia stata realizzata durante il periodo del processo a Tassi e che questo abbia influito probabilmente sulla composizione sin dalle sue basi, dalle movenze dei personaggi alla loro valenza simbolica. Se nell’opera di Caravaggio l’azione di Giuditta pare quasi incoraggiata dall’ancella che è solo spettatrice di ciò che fa la giovane qui si sovverte il tutto.
Gentileschi concepisce un’azione in cui si sente tutta la fisicità dell’atto difficile, necessario e violento: due donne che tengono giù un’uomo forte, che si divincola mentre gli tagliano la testa. L’ancella tiene Oloferne il più immobile possibile, preme sul suo petto con il braccio per immobilizzarlo mentre Giuditta con un viso determinato e serio bada solo al suo compito ultimo e decolla il nemico. Il dipinto potrebbe pertanto essere letto in chiave metaforica e di denuncia, le donne prevalgono unite contro l’uomo che per una donna sola potrebbe essere invincibile, questo potrebbe essere un richiamo di Artemisia Gentileschi verso Tuzia, amica della pittrice che non appoggio la donna durante il processo denunciandone anzi una condotta libertina, amica che non ha soccorso la compagna nel momento del bisogno. In fine Giuditta, o meglio Giuditta/Artemisia che si rivale sul suo aggressore, colui che l’ha ingannata.
Oggi tra Napoli e Firenze
Gentileschi dopo quella realizzata a Roma nel 1612 ne realizzò una seconda copia nel 1620 per Cosimo II de Medici. Se il soggetto e le dinamiche “triangolari” della scena originale rimangono immutate quello che cambia sono dimensioni, particolari e colori. L’opera di Napoli è stata datata come la prima tra le due, tant’è vero che grazie a studi a raggi X, metodiche oggi utilissime negli studi artistici è stato possibile osservare i ripensamenti, e le modifiche avvenute in corso d’opera non presenti nella copia fiorentina.
La scena napoletana è semplice, senza gioielli, vivo e pieno d’azione in cui le vesti delle due donne sono quasi “mimetiche” con l’azione avvenuta rapidamente di notte, un’abito rosso per la donna su Oloferne, uno blu per quella che lo miete.
Nella scena fiorentina la situazione cambia leggermente, la tela è più grande, infatti, scorgiamo sulla sinistra le coperte e le gambe dell’uomo divaricate, quasi nell’atto di scalciare, i colori si invertono parzialmente, ora è la serva a vestire di blu, mentre Giuditta ha un’abito giallo, dello stesso colore di quello della Giuditta caravaggesca. La protagonista qui è adattata alla corte in cui si trova, in cui dovrebbe essere esposto il dipinto, alla corte medicea, ha un abito che vede ora in risalto i particolari brillanti celati prima dalla notte, ha gioielli. In ambo i casi protagonista sottinteso è il sangue che sgorga e schizza sul letto e sembra voler finire sugli abiti delle due donne, è il sangue quello che in un certo sento mette in moto e rende dinamica l’azione.
La rivalsa
Alla fine della scena Giuditta, anche se non lo vediamo, ma conosciamo la storia, è vittoriosa, già il solo atto di essere lì e tagliare la testa a Oloferne simboleggia il successo della sua battaglia. Il taglio di quella testa simboleggia probabilmente anche la rivalsa di Artemisia che alla fine vedrà il suo aggressore condannato, nonostante questi abbia tentato di inquinare le prove comprando dei testimoni.
Questa era la prima “personale”, una mostra dell’opera forse tra le più significative di Artemisia Gentileschi, sia sotto il profilo artistico, ma soprattutto personale.
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