Il 23 novembre 1980, il giorno del terremoto, era una domenica. Una domenica all’italiana, col campionato di serie A a fare da sottofondo ad un pomeriggio insolitamente mite, per la stagione. L’Avellino che batte l’Ascoli per 4 a 2 al Partenio, il Napoli bloccato sul pari dal Bologna, il derby d’Italia vinto dalla Juventus. Era uno scenario solo apparentemente sereno, perché nel sottosuolo si stava preparando una delle scosse più violente della storia italiana. A partire dalle 19:34:53, e per i successivi 90 secondi, tutta l’Italia, dalla Pianura Padana fin quasi alle estreme propaggini della Sicilia, tremò. La scossa sconvolse completamente la vita di otto province: Avellino, Benevento, Caserta, Matera, Foggia, Napoli, Potenza, Salerno; 2914 persone persero la vita e oltre 800 mila persone rimasero senza casa.
Un triste primato
Quello in Irpinia fu il primo terremoto in Italia a seguito del quale si generò una spaccatura talmente profonda nella faglia da rompere la superficie ed essere visibile per decine e decine di kilometri, inoltrandosi tra montagne e boschi. Tipicamente associamo questa immagine a territori molto diversi dal nostro, dal punto di vista morfologico: un esempio su tutti è quello costituito dalla faglia di Sant’Andrea, in California.
Tuttavia, fu proprio questa particolarità a rendere il sisma in Irpinia un caso di scuola. La faglia fu studiata da scienziati provenienti da ogni parte del mondo, compreso il Giappone dove, come si sa, la sismologia raggiunge livelli di eccellenza. Il sisma del 1980 ha costituito l’inizio della paleo-sismologia in Italia: lo studio dei terremoti antichi, della loro frequenza e delle loro intensità, per capire meglio il presente e provare ad anticipare l’immediato futuro.
Un terremoto, tre diverse scosse
In questi giorni si susseguono documentari e testimonianze legati all’evento, in occasione del quarantennale: ma cosa lo ha reso così distruttivo e così persistente nella memoria anche di chi ne è stato solo sfiorato?
La scossa non fu solo una: in realtà ce ne furono tre, a distanza di venti secondi l’una dall’altra. I testimoni ebbero la percezione di una sola, lunghissima, scossa, perché le successive due si inserirono nella coda della prima, sommandosi ad essa e sommandosi tra loro. Ciascuna di queste di intensità paragonabile a quella della scossa de L’Aquila del 2009.
Non eravamo pronti ad un evento del genere. Molte strade cedettero, i soccorsi arrivarono in ritardo, i sismologi incontrarono vari problemi nell’operare una stima dell’epicentro, tanto che inizialmente lo fissarono a Eboli. D’altra parte, la tecnologia non era al livello di quella attuale. Gli osservatori sismografici dislocati sul territorio non erano in rete e potevano comunicare solo telefonicamente con Roma.
Un caso di scuola
Come spesso capita alle calamità che colpiscono il nostro paese, anche il terremoto in Irpinia costituì un punto di svolta. Da un lato, diede un enorme impulso alla nascita della Protezione Civile, la cui necessità iniziò a farsi palese già dopo il terremoto del Friuli, di solo quattro anni prima.
Dal punto di vista strettamente scientifico fece invece emergere la necessità di una rete sismica nazionale centralizzata, che prese forma proprio a seguito di quel tragico 23 novembre.
Subito dopo il terremoto furono messe anche le basi per una classificazione sismica del territorio italiano. La prima risale al 1984 ma se ne giunse a compimento solo dopo un’altra tragedia, il terremoto del Molise del 2002.
Per non dimenticare
L’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia), in occasione di questo quarantennale, ha costituito un portale nel quale sono raccolti dati scientifici, memorie e testimonianze di quel tragico evento.
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