Angelo Iannace, classe ’90, dalle molteplici ambizioni e con un’incontenibile voglia di studiare. Napoletano, legato al teatro da sempre, e a 25 anni la chiara consapevolezza che questo sarebbe stato il suo mestiere.
-Cosa avresti fatto nella vita se non avessi fatto l’attore?
-Non ne ho proprio idea! Risponde senza troppi giri di parole.
Noi di Corriere di Napoli abbiamo avuto il piacere di incontrare Angelo Iannace e scambiare con lui quattro chiacchiere
Il teatro secondo Angelo Iannace: la chiave della felicità
–Buonasera Angelo e grazie per averci incontrato. Dunque, raccontaci un po’ quando tutto ha avuto inizio.
–Buonasera Roberta e grazie a te per questa occasione. Il mio primo incontro col teatro è avvenuto a scuola. Avevo 6 anni e la mia maestra di italiano era un’appassionata di recite e ci coinvolgeva in tanti spettacolini. Per me era puro divertimento, un’attività leggerissima e spensierata. Raggiunta l’adolescenza mia madre, accortasi di questa mia passione, che ho continuato a coltivare a scuola e nella parrocchia del quartiere, mi suggeriva di iscrivermi a qualche corso di teatro.
Io, viceversa, credevo che prendendolo come un impegno potesse diventare qualcosa di troppo grande per me, qualcosa di costrittivo, così declinavo ogni proposta di corso o di scuola. C’è stato un momento nel quale però qualcosa è cambiato in me: era il secondo anno di lavoro come animatore di villaggio per la stagione estiva in Sicilia. Avevo 25 anni e più di un ospite della struttura insisteva affinché io prendessi sul serio questa mia aspirazione, che non mi limitassi agli spettacoli allestiti per i villaggi ma considerassi di dedicarmi con più concretezza a questo mestiere.
E così, sulla spinta di cotanto incoraggiamento, al rientro dalla stagione estiva mi sono iscritto al laboratorio del Teatro Totò. Fortuna ha voluto che quell’anno noi partecipanti potessimo accedere ad un corso sovvenzionato dalla Regione, e quindi per sei mesi mi sono lanciato in un’intensa full immersione che mi ha consentito di recuperare qualche lacuna.
-Per anni una mera attività che accompagnava altri percorsi, poi la scelta di dare una dimensione a questa passione. Cosa è cambiato da quando hai capito che poteva essere il tuo lavoro?
-È cambiato che da quel momento in poi mi sono dedicato solo ed esclusivamente al teatro, con sacrificio e con tutte le mie energie. Sentivo di essere nel posto giusto, di non aver bisogno di nient’altro per stare bene, credo di essermi innamorato e di avere impressa dentro di me quella sensazione da allora. Non avevo più paura che fosse tutto troppo grande o serio, finalmente ero pronto.
-Hai mai avuto cedimenti, ripensamenti? Sei ancora convinto che sia valsa la pena di darsi anima e cuore al teatro, considerando quanto a volte si riveli un percorso precario?
-In realtà non potrei farne proprio a meno. Anzi a pensarci bene credo di non averne mai fatto a meno. Il teatro per me ha rappresentato una costante, una traccia che ha segnato da sempre la mia vita. Ho intrapreso anche altre strade, ho fatto tanti lavori diversi, praticato diversi sport, ma nulla ha avuto la stessa continuità e nulla mi ha visto così coinvolto. Addirittura per me ha rappresentato una vera e propria terapia grazie alla quale ho superato un momento delicato della mia vita. Questo lavoro mi ha aiutato letteralmente a riprendermi.
-Considerando che questa scelta si è affacciata nella tua vita in età adulta, avrai individuato con maggior senso critico dei riferimenti artistici. Quali sono?
-Indubbiamente mi piace cogliere dai grandi artisti dei tratti particolari e cercare di farli miei. Lo studio sui grandi di quest’arte è elemento imprescindibile per tentare una solida carriera, anche se il mio obiettivo è di rendermi il più eclettico possibile evitando copie svilenti e vuote imitazioni. Relativamente alla mimica mi riferisco a Charlie Chaplin, idolo incontrastato che ha dato un volto nuovo al clown Augusto, evolvendolo in un genere di nuova dignità. E poi impazzisco per la comicità di Stan Laurel, del duo Stanlio e Ollio, di un estro e di un’originalità senza eguali. Da buon italiano, e napoletano nello specifico, tanto attingo dall’eredità di Troisi, le cui pause sono oro per gli appassionati del cinema e del palcoscenico. Credo di fare questo nel mio percorso: “rubare”, per quanto sia nelle mie possibilità, gli strumenti per essere un attore poliedrico.
-Sapresti dirmi un’opera teatrale che ti piace in particolar modo?
–Ti rispondo senza dubbi: Questi Fantasmi!, di Eduardo. È un testo geniale, non saprei altrimenti definirlo. I dialoghi tra il protagonista e il professore dirimpettaio, che non appare nella messa in scena, sono di una naturalezza disarmante, è una lezione di teatro resa a disposizione del pubblico.
-Come definiresti il teatro come ambiente di lavoro?
–Oggi giorno è difficile emergere, affermare un progetto, un’idea, considerando anche i canali di visibilità che tendono al digitale. E poi è un mestiere che emotivamente ti segna, dovendoti mettere costantemente alla prova, devi trovare produzioni, fare provini, ricevere numerosi “no”, e poi noi attori non siamo una categoria tutelata. Quest’ultima circostanza si è evidenziata oltremodo nell’ultimo anno: i teatri hanno riaperto dopo tutte le altre attività, e questo ha fatto male a tutti. Ritengo che se non fossi motivato come sono queste dinamiche mi peserebbero di più, ma sento solo di non poterne fare a meno comunque. Per me ne varrà sempre la pena.
-Cos’altro è emerso secondo te grazie alla pandemia relativamente a questo settore?
-A mio avviso, si è evidenziato chiaramente quanto sia importante per la società nutrirsi di arte, di cultura. Sono aspetti che non possono essere trascurati. La socialità può essere recuperata anche attraverso l’incontro in spazi di cultura, attraverso il teatro, attraverso iniziative artistiche. Personalmente io credo che il teatro debba essere insegnato nelle scuole, come materia d’obbligo, perché è attività estremamente educativa. Bisognerebbe centrare il valore del teatro come esercizio di empatia, per mettersi nei panni dell’altro, per esercitarsi all’ascolto, tutte cose che sempre più spesso si perdono di vista.
-Che sogni hai per i prossimi anni?
-Mi piacerebbe studiare regia e dedicarmi anche alla stesura di testi miei. Sul piano lavorativo, un desiderio potrebbe essere recitare in una compagnia di stampo internazionale, magari partecipare a qualche allestimento di autori europei. Portare in scena Shakespeare anche lo annovero come sogno nel cassetto. Per il mio percorso finora portato avanti, mi sento legato maggiormente a lavori comici, vorrei poter cambiare rotta e cimentarmi in drammi, o opere classiche, come quelle del teatro Elisabettiano, appunto.
-Hai detto prima che tua madre incoraggiava questa passione. Mi chiedo: hai sempre goduto dell’appoggio della tua famiglia, anche quando questa strada si delineava come definitiva?
-Sono davvero fortunato nel poter dire che ho sempre avuto la mia famiglia favore, senza tralasciare però talune perplessità, dati i periodi magri che questo percorso implica inevitabilmente. Ma il loro approccio a questa scelta lavorativa mi da un senso di normalità, di struttura, non so come dire, mi aiuta a tenere i piedi piantati a terra ed evitare di fare la fine di Icaro e di bruciarmi le ali per inseguire l’inarrivabile. Invece so bene quanta strada debba ancora fare e sono disposto pertanto ad ogni sacrificio.
Noi del Corriere di Napoli congediamo Angelo Iannace e invitiamo tutti i lettori a seguirlo sui suoi canali social. Il nostro augurio è di vederlo presto coinvolti in progetti all’altezza elle sua ambizioni.
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