Fiat lux!: Pellizza da Volpedo e Giacomo Balla
Le tenebre della notte lasciano il posto ad una luce chiara che dal centro irradia il paesaggio, offuscandolo. Una luce che espandendosi, atomizzante nel suo filamentarsi, attraversa la materia vibrante: tutto pervade lo spazio sotto forma di pulviscolo multicolore.
Prima tra le sue opere ad entrare in un museo pubblico, Il Sole (1904) è forse uno dei prodotti più sperimentali del divisionismo simbolista di Giuseppe Pellizza. Attualmente esposto presso Gallerie d’Italia di Napoli in occasione della XIX edizione di Restituzioni – il programma biennale di salvaguardia e valorizzazione del patrimonio artistico nazionale che Intesa Sanpaolo conduce da oltre trent’anni in collaborazione con il Ministero della Cultura – è visitabile fino al 25 settembre 2022.
Una forza atomizzante che in un certo qual modo pare sottintendere in sé la presenza di chi in quel momento, immerso ancora in un sonno profondo, manca all’appello: nessun animale o presenza umana contamina la solennità della scena; Fiat Lux! La luce del sole è prima donna in un silenzio cosmico. D’altro canto, il silenzio solenne è una delle caratteristiche ricorrenti nell’opera di Pellizza – si veda, ad esempio, Ricordo di un dolore, 1889.
Evidente conseguenza del Neoimpressionismo francese, Pellizza da Volpedo anima il suo pennello su di un entusiasmo che diventa ideologia: romantica celebrazione della scienza in quanto sinonimo di progressismo. Infatti, gli esiti conseguiti dal progresso della scienza portano alla rigorosa scomposizione, o anzi, divisione degli effetti luministici che permeano l’ambiente. Non c’è ricerca – o almeno non come la si intende per i neoimpressionisti -, l’oggetto di ricerca non ha motivo d’esistere in quanto l’esperienza impressionista si è consumata sì, ma non in Italia, laddove se ne raccolgono già maturi i frutti.
La divisione è tecnica funzionale al servizio dell’ideologia politica, che non a caso nel Quarto stato (1898-1901) suggella un fermo impegno dell’arte nella lotta proletaria. «Il sole dell’avvenire non è solo una metafora disposizione della riscossa degli umili, ma anche un’ipotetica avanzata a impadronirsi dei tesori di energia insiti nel dardeggiare dell’astro» (Renato Barilli).
Cosi come Giulio Carlo Argan notava nella destrutturazione spaziale di Seurat, in Pellizza non c’è geometrismo spaziale, non c’è «un ritorno alla geometria dello spazio prospettico e alla concretezza fisica delle cose» (Giulio Carlo Argan). Il magistero compositivo si compone di verticali e diagonali che portano l’opera ad innalzarsi più su di uno spazio teorico, che non empirico.
La luce del sole incede solenne come nel moto ritmato della Processione (1893-95), in cui le persone in marcia sembrano voler investire e sfracellarsi verso il primo piano. In questo senso, Renato Barilli fa notare che «ci vorrà del tempo, prima che riescano a superare il vasto lembo di terrain vague posto tra loro e l’occhio dell’artista, e lo spettatore, un tratto di spazio in cui la scomposizione pulviscolare celebra le sue magiche alchimie, dandosi a una sorta di calcolo infinitesimale».
Uno spazio che si tesse d’attesa, un grande concerto d’insieme che si celebra sotto il tetto di una comune soggezione alle leggi cosmiche. Ed è proprio in questa glorificazione della rappresentazione della natura inanimata ad essere presente un potenziale simbolismo, che può «essere particolarmente e socialmente utili all’uomo, traendolo dalla realtà informe, anarchica, verso una realtà organica… socialista!» (Pellizza da Volpedo, lettera a Luigi Onetti, 1905).
Sulla scia di questo fin-de-siecle, in un clima post-unitario in cui gli artisti cercavano di tradurre in opere le nuove idee, ma si ritrovavano invece a celebrare un pietismo tipico del socialismo umanitaristico del tempo, nasce il Futurismo (1909).
Il Futurismo delle mille contraddizioni nasce in antitesi al verismo umanitaristico, come aspirazione verso la modernità e confondendo socialismo e positivismo. La scienza – come per i divisionisti – esalta l’idea del progresso: ma qui non c’è spazio all’estasi di una natura unificante.
Il Sole elettrico di Giacomo Balla «uccide il chiaro di luna»: l’esperienza fugge alla contemplazione, facendo del progresso il centro della nuova estetica. Ma si tratta di una rivoluzione che non ha nulla da spartire col Pellizza: per i futuristi la rivoluzione è borghese; non c’è interesse per la lotta operaia, ma si colora di puro opportunismo.
Giacomo Balla cresce nel solco della divisione: per questioni anagrafiche è il tramite tra la triade filo-ottocentesca e la nuova generazione. L’influsso del Pellizza traspare nelle tematiche sociali trattate dal primo Balla – seppur scarno di languori simbolisti – ma ben presto ci si imporranno nuovi compiti ben più consoni per i tempi a venire.
In Lampada ad arco (1909-11), Il sole viene letteralmente soppiantato da una luce elettrica. Tutto si coniuga nel nome della modernità, dell’esperienza. Balla cogliendo in questo senso la verità di «una vita trasformata dall’era della tecnica» (De Micheli) evade dai limiti dell’ottocentismo e si adegua ai tempi della rivoluzione industriale. L’oggetto d’uso comune viene sottoposto ad un’attenta analisi, quasi fotografica.
Ecco che nell’irradiazione – che qui si fa violenta a tal punto da «schiaffeggiare il pubblico» – traspare la lezione del Pellizza, ma la differenza sostanziale si enuncia nello sfrondare il carattere simbolico. La luce si propaga non più con un moto da processione, ma diventa bombardamento atomistico, in coerenza con le attitudini dell’avanguardia della velocità.
Balla sperimentatore trasla il divisionismo in rappresentazione sintetica del mondo, traghettando il vecchio ottocentismo verso il tramonto e incoraggiando la nuova generazione – di artisti polemicamente reazionari – a varcare la soglia della stagione dell’avanguardia.