Uroboro: la strage di Capaci. Finalmente doppia cifra! Benvenuti all’episodio n.10 di “Uroboro”, una rubrica nella quale analizzeremo una volta a settimana un evento storico riguardante il passato recente e non.
PERCHE’ “UROBORO”
Mentre studiavo per l’università, mi sono imbattuto nel mio vecchio libro di filosofia. Riaprendolo, ho riletto il pensiero di Nietzsche riguardo il concetto di storia. Più nello specifico, mi sono soffermato al pensiero di eterno ritorno dell’uguale. Incuriosito, sono andato a cercare una definizione per spiegarla: si parla di una teoria che si ritrova genericamente nelle concezioni del tempo ciclico, come quella stoica, per cui l’universo rinasce e rimuore in base a cicli temporali fissati e necessari, ripetendo eternamente un certo corso e rimanendo sempre se stesso. Esiste, inoltre, un simbolo molto antico, presente in molti popoli e in diverse epoche: l’uroboro. L’uroboro rappresenta un serpente o un drago che si morde la coda, formando un cerchio senza inizio né fine. Rappresenta il potere che divora e rigenera se stesso, la natura ciclica delle cose, che ricominciano dall’inizio dopo aver raggiunto la propria fine.
LA PUNTA DELL’ICEBERG
In un’intervista di un anno e mezzo fa pubblicata sul canale YouTube di Gianluca Gazzoli, il giornalista sportivo Flavio Tranquillo parlò un pò della sua vita, non lasciandosi sfuggire nulla sul basket e sulla telecronaca sportiva, i perni della sua carriera giornalistica (e non solo). Ad un certo punto, però, a Tranquillo viene fatta una domanda su un’altra tematica a lui cara: la lotta alla mafia. La prima cosa che disse, rispondendo alla domanda sulla sua lotta alla mafia, mi lasciò spiazzato. La sua presa di coscienza nella lotta alla legalità avvenne perché: “Non sapevo il 23 Maggio chi fosse Giovanni Falcone, ed è una vergogna”. Sono perfettamente d’accordo. Anche non ricordare ogni anno ciò che accadde il 23 Maggio del 1992 sarebbe una vergogna al pari di non conoscere la vicenda, se non peggio. Per questo, oggi, parliamo della strage di Capaci.
UN DESTINO GIA’ SCRITTO
Giovanni Salvatore Falcone nasce a Palermo il 18 maggio del 1939 da Arturo, direttore del Laboratorio chimico provinciale, e da mamma Luisa. Si racconta che durante il parto, nel momento in cui nacque, dalla finestra aperta entrò una colomba, simbolo di pace. Il secondo nome, Salvatore, gli venne dato per onorare lo zio materno, Salvatore Bencivegna, un bersagliere morto sul Carso. Papà Arturo, invece, gli parla spesso dello zio paterno, capitano in aviazione, morto quando il suo aereo era stato colpito durante un combattimento. Il contesto familiare in cui visse Giovanni ci fa già capire perché scelse la ‘fazione buona’ della Sicilia di quegli anni.
Spesso, inoltre, andava a giocare a Piazza della Magione. Quella piazza era il cuore di Palermo e lì, tra un calcio al pallone ed un altro, conobbe Paolo Borsellino. Nel suo quartiere di nascita, Kalsa, ci vissero durante l’infanzia tante persone che hanno scritto la storia d’Italia, chi nel bene, chi nel male. Tra questi, anche colui che gli consentì di imbastire il famoso Maxi Processo del 1985: Tommaso Buscetta. Insomma, un destino già scritto.
QUASI MORTO A TRAPANI
La sua carriera di magistrato comincia nel 1967 a Trapani. Qui, per la prima, si confronta con la mafia, invasiva e crudele, delle cosche trapanesi, capeggiate da Mariano Lipari. Durante gli undici anni di permanenza trapanese, Giovanni rischiò, per la prima volta, di morire. Mentre è in carcere come giudice di sorveglianza, un terrorista appartenente ai nuclei armati proletari lo prende in ostaggio, puntandogli un coltello alla gola. Gli chiede di leggere un suo messaggio alla radio ed il trasferimento in altra struttura. Alla fine le richieste del terrorista vengono soddisfatte e Giovanni Falcone scampa il pericolo.
Nel 1978, oltre a concludersi la sua esperienza in quella città, iniziò a sgretolarsi il suo primo matrimonio. Nell’estate del 1979, poi, il suo rapporto con la moglie Rita, conosciuta da giovane ad una festa, si rompe per sempre.
CAMBI DI ROTTA IMPROVVISI
Tra il 1980 e il 1992, le difficoltà che si sono presentate sulla strada di Giovanni Falcone nella lotta alla mafia furono tantissime. Provenienti da chi lo odiava, ovviamente, ma anche da chi, fino al giorno prima, sembrava essere suo amico. Questo ci fa comprendere ancora meglio quanto la voglia di cambiare la sua Palermo e l’Italia intera fosse tantissima. Nel 1984, dopo l’ennesimo assassinio dell’ennesimo uomo di stato, Rocco Chinnici, ci fu una svolta. Il successore di Chinnici fu Antonino Caponnetto.
Caponnetto capì che ci voleva qualcosa che aiutasse e non ostacolasse Giovanni e tanti altri, come lui. Nacque così il ‘pool antimafia’, volto a distruggere non cosche divise che si uccidevano tra loro, ma il sistema ‘Cosa Nostra’. Da lì si arrivò al Maxi-Processo del 1985, che rese latitanti, tra i tanti, anche i suoi futuri assassini: Salvatore Riina, Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano.
L’ATTENTATO
Minacce, attentati falliti, pressioni interne nel palazzo di Giustizia a Palermo lo costrinsero, dal 1989 in poi, a trasferirsi a Roma. Lì riuscì a dare il meglio di sé, anche se lasciare Palermo gli aveva fatto comprendere quanto la mafia fosse potente. Tra le tante passione e libertà che aveva perso durante il suo percorso da magistrato ed attivista politico, lasciare il luogo dove era nato, cresciuto e diventato l’uomo che abbiamo conosciuto fino al 23 maggio del 1992.
Pochi giorni dopo aver compiuto 53 anni, Falcone tornò a Palermo assieme alla seconda moglie, Francesca Morvillo. Una donna che viveva in maniera piena il mondo di Giovanni e che, per questo, capiva ed accettava il percorso suicida del marito nella lotta alla criminalità. Enzo Biagi ricorda di aver detto a Giovanni Falcone ed alla sua sposa Francesca: “Perché non fate un bambino?”. La risposta fu ” Non si fanno orfani”. Una lucidità disarmante nell’accettare di essere ‘un morto che cammina’. 28 anni fa, alle 17 e 58 di oggi, sull’autostrada A9, ci lasciavano per sempre Giovanni Falcone, Francesca Morvillo ed i tre agenti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. “Gli uomini passano, le idee restano e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”.
Uroboro: in ricordo di Pio La Torre
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