Salvatore Emblema: dai colorfields alla detessitura passando per i décollages
Grandi campiture di colore escludono qualsiasi interesse per il gesto o per il segno, stagliandosi sulla superficie della tela: si tratta del Color field painting, tendenza che prende il nome dalla definizione del critico Clement Greenberg, sviluppatasi negli Stati Uniti verso gli anni Cinquanta del secolo scorso.
Con una poetica che si sviluppa nel germe del surrealismo e che in un processo di semplificazione si finalizza all’indipendenza del colore – fino a che, nel Quarantanove raggiunge la piena astrazione liberandosi dalla forma – Mark Rothko è sicuramente la prima donna di questa tendenza.
Infatti è già nei suoi multiforms (1948) che il colore si riduce a macchie – a tre o a due – che paiono fluttuare leggere al di sopra della superficie della tela. In Rothko infatti non c’è spazio per la figurazione, tutto è calma in un colore che si offre disteso e mosso da brevi passaggi di tono.
Giulio Carlo Argan paragona l’azione di Rothko a quella di un imbianchino. Infatti:«nessuno prima di lui si è mai chiesto cosa sia una parete nella psicologia del profondo e la parete non è soltanto una superficie solida di mattoni intonacati ma è anche un colore[…] L’opera del pittore che tinteggia una parete non è meno costruttiva di quella dell’architetto che l’ha progettata e del muratore che l’ha fabbricata» (Giulio Carlo Argan).
L’artista infatti condivide con l’imbianchino la pacatezza della stesura del colore che nel suo moto ritmico e regolare genera una situazione di tipo ambientale.
La parete infatti è ambiente: al contrario di quanto accade nelle superfici specchianti(1961) di Michelangelo Pistoletto – in cui appunto è la realtà circostante a condizionare la composizione interna dell’opera – in Rothko è la parete, la superficie, lo spazio della pittura che, traboccando dal limite del muro invade la realtà circostante condizionandola.
Le campiture, anzi, i campi di colore instaurano un legame emotivo con l’osservatore in quanto si compongono di elementi che appartengono ad un linguaggio di tipo universale. Nelle macchie di colore dell’artista sono contenute l’estasi e la tragedia, e ad accentuare i caratteri da superficie-ambiente, un ruolo fondamentale viene ricoperto dal formato, che permette allo spettatore di riflettersi dentro di esso.
Lo sfondamento spaziale di Salvatore Emblema
Per intraprendere un viaggio all’interno dell’opera di Salvatore Emblema bisogna tenere presente due concetti fondamentali, e cioè quello dello spazio della pittura e quello del rapporto tra luce e ombra (Alessandro Riva).
Salvatore Emblema – al quale il Museo di Capodimonte ha oggi inaugurato una ben strutturata mostra visitabile fino al 30 ottobre – dopo aver soggiornato a New York si avvicina alle modalità produttive Rothko, entrando in sintonia con la sua poetica.
Infatti, una volta tornato in Italia, inizia riflettere sulle diverse possibilità di approccio alla tela, rifiutandone quello tradizionale. In sintesi, inizia a farsi sentire la necessità di voler sfondare la superficie.
Il lavoro dell’artista napoletano si pone infatti a metà strada tra il Color field di Rothko e lo Spazialismo di Fontana. Quest’ultimo – con i suoi tagli – è sicuramente il primo ad aver in qualche modo aggirato la problematica dei limiti imposti dall’opera tradizionale. Ma per Salvatore Emblema – pittore puro – quel gesto appare come un qualcosa di teatrale.
Emblema si lega indissolubilmente al gesto pittorico, sottraendosi dai fatti di teatro – e quindi dal gesto – ricercando l’essenza del suo lavoro in una luce che si sottragga dalla «menzogna». Nel 1958 la sua ricerca lo porta a scoprire la cosiddetta detessitura – termine coniato da Palma Bucarelli. Per usare le parole dell’artista:«per secoli, lo spazio dietro il quadro è stato uno spazio morto. Era necessario far vivere quello spazio, perché è là che la verità aspetta di essere scoperta».
I campi di colore di Emblema si caratterizzano infatti di una trasparenza che rivela, che sfonda portando la pittura verso nuove possibilità spaziali. La sua ricerca è in questo senso un gioco di equilibri tra una spazialità nuova, diversa, ma che allo stesso tempo non rinneghi l’intenzione pittorica.
È bene ricordare inoltre che negli stessi anni – verso gli anni 50 del scolo scorso – la decostruzione è un modus operandi che caratterizza la produzione di molti altri artisti: Mimmo Rotella, ad esempio, offre una soluzione al problema verso il ribaltamento della superficie del quadro attraverso il décollage.
In qualche modo se pur con profonde differenze, le soluzioni di Rotella portano alla luce il recto dell’opera – celebre è il caso di Up-tempo (1957) conservato alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma.
Tornando al caso Emblema: la luce che caratterizza le sue opere è una luce fisica, concreta, che assieme allo spettatore penetra la trama della tela per portare in superficie la parete su cui è appoggiata, trasformando l’opera in una «pittura scultorea» (Ammon Barzel).
Inoltre – e qui forse ritornano alla mente le già citate strutture specchianti di Pistoletto -, grande importanza è data all’hic et nunc, in quanto le variabili – la direzione e l’intensità della fonte di luce, la parete e l’ambiente, l’angolatura in cui si trova l’osservatore – fanno si che la composizione si ri-moduli in un perenne fluire. Ed ecco quindi che la tela, non più statica ma essenza dinamica, attraverso la trasparenza scavalca il recinto del kepos, rivendicando la propria appartenenza alla natura.