Il mito di Diana e Atteone come metafora dell’opera. Da Caserta a Parigi
All’interno del parco della celeberrima Reggia di Caserta, e in particolare, giungendo in quel crescendo di magnificenza e virtuosismi della Via d’Acqua, ci si ritrova dinnanzi a due grandi gruppi scultorei, che si mescolano alla maestosa cascata che fa da quinta. Si tratta appunto della “Fontana di Diana e Atteone”.
Un’iconografia che forse si giustifica grazie al culto di Diana – la dea della Caccia nota con il termine “tifatina”, in suo nome venne consacrato un tempio dalle cui rovine sorge la Basilica di Sant’Angelo in Formis – molto sentito nel territorio casertano, che riprende il terzo libro di “Le metamorfosi” di Ovidio in cui viene narrata la tragica storia di Atteone.
Il giovane Atteone infatti, essendosi smarrito durante una battuta di caccia, si imbatté casualmente in una grotta. Avvicinatosi ad elementi che suggerivano riposo e ristoro, si ritrovò dinnanzi a Diana e le sue ninfe al bagno. Queste non potevano essere viste da occhio mortale. La sentenza fu fatale: la dea della caccia decise di trasformarlo in un cervo per poi farlo sbranare dai suoi stessi cani.
La scena – realizzata da Paolo Persico, Pietro Solari e Angelo Brunelli nel 1769 circa – ci presenta il momento in cui Atteone invade lo spazio sacro: la Dea svestita e circondata da Ninfe mentre, dedita al suo bagno, scorge Atteone intento a spiare le sue nudità. Atteone, sulla sinistra, appare nel pieno della sua metamorfosi: presenta infatti già le caratteristiche del cervo.
La vivacità della cascata che fa sfondo – elemento di vita e purificazione – scorre tra i due protagonisti della scena, conferendone maggiore maestosità e imponenza. Ulteriori scene di caccia incorniciano quello che è il più celebre complesso scultoreo del rococò napoletano.
Il mito di Diana e Atteone nel Novecento
Ad aver ripreso il mito di Diana e Atteone per decostruire un’opera del Novecento, è il premio Nobel Octavio Paz (in Apparenza nuda, 1973). L’analogia tra il complesso scultoreo e l’Étant donnés di Marcel Duchamp fa si che il discorso entri in una dimensione iconologica, più che iconografica.
C ‘è una situazione molto simile tra le due opere: il gruppo scultoreo casertano rappresenta il passo delle metamorfosi di Ovidio in cui si racconta che il cacciatore Atteone viene condannato a morte poiché, come abbiamo già detto, reo di aver violato lo spazio sacro.
Augusto Gentili – nell’affrontare la stessa iconografia realizzata da Tiziano – spiega che questi dipinti dedicati al mito della metamorfosi sono in un certo senso degli apologhi morali, come era frequente in quel tipo di cultura. La morale era in sintesi di stare al proprio posto: se fai il cacciatore non puoi permetterti l’hortus conclusus, non puoi permetterti l’ozio divino. Atteone viene infatti declassato al rango inferiore ed ucciso.
Il lavoro di Duchamp, non per continuità ma per forza delle forme (Heinrich Wölfflin), aiuta a rileggere anche questo tipo di lavoro e a comprenderne l’aspetto iconologico, che mostra come Atteone abbia fatto un gesto ardito di volontà, e cioè di abolire la divisione tra un mondo ed un altro perché animato dalla curiosità. Atteone svela e guarda dall’altra parte.
L’opera dell’artista francese si compone di una porta in legno che sbarra la vista. Tuttavia se, con fare da vouyer, sì guarda dai fori praticati su di questo, si scorge quella che è l’installazione ambientale. Si tratta di un fondale naturalistico, un tavolo con dei pezzi di manichino e una lampada a gas.
Nel dispositivo di Duchamp, Atteone non verrà sbranato da nessuno, addirittura il suo gesto è fondamentale perché l’opera si realizzi: è un’esortazione al voyeurismo. È questa la discontinuità che Duchamp iconologicamente rappresenta, e cioè che c’è un altro tipo di consumo dell’arte, di interpretazione, di leggibilità, di rapporto con l’autore.
Duchamp riflette quindi sulle trasformazioni iconologiche di significato dovute al cambiamento di ruoli e di spazi occupati. Non a caso siamo negli anni Sessanta e ci si trova in un pensiero che ha rivisto tutti i canoni tradizionali. Questo ribaltamento è quindi un’annessione del fruitore all’interno del lavoro: si è parte attiva, si è il nuovo Atteone.