Carlo Gesualdo Principe di Venosa, il compositore assassino. Già da solo, questo binomio, racconta una storia.
Capita che i fatti di sangue sovrastino qualsiasi altra opera compiuta in vita, anche se a commetterli è, a detta dei critici, uno fra i più grandi madrigalisti della storia. Così, proprio il tragico, cruento e ferale esito del suo matrimonio è all’origine della fama di Carlo Gesualdo, che divenne il “compositore assassino” nella storia della musica.
Napoli, anno del signore 1590.
Certo, mi rendo conto che la musica del XVI secolo non sia argomento di coente attualità. Così come i madrigali non svettano tra le playlist di Spotify. La storia di Carlo Gesualdo, principe di Venosa, però, è la vicenda terribile e sanguinaria di un musicista, è vero, ma soprattutto è il racconto di un folle che non trova argine in grado di fermare la piena delle proprie oscure volontà.
Il principe apparteneva alla nobile stirpe napoletana dei Gesualdo, conte di Conza e signore di Gesualdo.
Carlo Gesualdo nacque nel 1566 da Fabrizio II e da Geronima Borromeo, sorellastra di un arcivescovo milanese. Educato a Napoli, Carlo manifestò un precoce talento musicale, tanto che, non ancora ventenne, pubblicò la sua prima composizione. Pare che fosse, anche, appassionato cacciatore.
Le due anime di un uomo del suo tempo, diviso tra attività artistiche e sport venatori. Quasi un presagio, del resto si sa “Divertimenti violenti portano a fine violente”, lo scrive Shakespeare. Può dunque darsi che al principe il matrimonio non interessasse più di tanto, concentrato com’era su stesso e le su arti. Possibile che percepisse quel legame come un vincolo sacro ma tedioso, anche se celebrato con la bellissima, cugina di primo grado, Maria d’Avalos.
I due, come spesso accade, si sopportano. Quell’unione non è il sogno di nessuno dei due ma le tradizioni vanno onerate, la famiglia rispettata e il potere mantenuto.
Dopo la nascita di un figlio, però, Maria proprio non ne può più delle manie e delle ossessioni di quello che ai suoi occhi appare come un ometto e che lei, dall’alto della sua fiabesca avvenenza, non esitava a definire poco attraente e, passano così quattro anni, durante una festa cade la goccia che fa traboccare il proverbiale vaso. La “goccia” si chiama Fabrizio Carafa, il duca di Andria, soprannominato l’Arcangelo. Praticamente il principe azzurro delle fiabe ma sposato e con figli. Poco male. Iniziarono una relazione clandestina e travolgente.
Una passione che diviene rovina.
Da quel momento in poi, i pettegolezzi riguardanti la loro relazione adultera si diffusero impietosi in tutta la città. Carlo Gesualdo ucciderà la moglie, Maria D’Avalos, perché colpevole di averlo tradito con il nobile Fabrizio Carafa. La legge dell’epoca non può perseguirlo perché ha fatto il suo dovere per proteggere il casato e ha agito nel pieno del suo diritto. Una moglie fedifraga minaccia la continuità della stirpe nobiliare e va punita.
Egli deciso a vendicarsi dell’oltraggio subito, preparò così, insieme ai suoi servitori la personale vendetta. Finse di partire per una battuta di caccia e si nascose con alcuni suoi servi nelle segrete del palazzo mentre altri suoi servi sorvegliavano l’appartamento nel quale la nobildonna s’incontrava con il Carafa.
In una missiva Pietro Malitiale, detto Bardotto, servo di Carlo, così racconta l’incontro avvenuto con un padrone indemoniato nel cuore della notte: “ il Signor Don Carlo li disse, che voleva andare a caccia, e io dissi, che quella ora non era ora di caccia, il Signor Don Carlo mi rispose:
«Vedrai, che caccia farò io». Si finì di vestire e mi ordinò, che allumasse due torcie, che stavano alla camera e, una volta accese che furono, il signor Don Carlo cacciò da sotto il letto una daga con pugnale e uno archibugetto da due palmi incirca. Salì così armato all’appartamento della signora Donna Maria d’Avalos, e così procedendo fuori di sé, ruggendo dal profondo del cuore disse: «Voglio andare ad ammazzare lo duca d’Andria, e quella bagascia di Donna Maria!».
La notte in cui Maria fu sorpresa con il suo amante, tra il 16 e il 17 ottobre 1590, è nota grazie anche ad altre due testimonianze, le quali riepilogano con una precisione raccapricciante la vicenda. Nell’ordine, i resoconti delle indagini condotte dai giudici del Gran Tribunale del vicariato del Regno di Napoli e una lettera dell’ancella di Maria, Silvia Albana che così ripercorre quella notte di furore omicida:
“Su la mezza notte ritornò il Principe, accompagnato da una truppa di cavalieri amici e parenti tutti armati; avanti della camera della principessa stava di scorta la fida di lei cameriera Laura Scala, mezza addormentata su di un letto, che, sentendo il rumore gente, volle gridare; ma minacciata della vita dal Principe si ritrasse più morta che viva, il quale attendeva con un calcio la porta della camera e, tutto furibondo entrando dentro di essa, trovò che nuda in letto, ed in braccia al Duca giaceva sua moglie”.
Al momento opportuno, dunque, Gesualdo fa irruzione nella camera della principessa sorprendendo i due amanti in flagrante adulterio. La scena, a questo punto, l’abbiamo tutti immaginata. La serve, nell’anticamera, rimane pietrificata dalle grida di aiuto inascoltate, dal rumore del coltello e dell’archibugio scagliati ancora, ancora e ancora su corpi umani immobili. A quel punto, cala su di lei un silenzio innaturale, rotto solo dai suoi singhiozzi, dal rumore dei cadaveri che, gettati dalle finestre, incontrano il pavimento del cortile e dagli speroni dei soldati che abbandonano il luogo del massacro.
Completamente accecato da dolore e gelosia, Gesualdo diede ordine di recuperare i cadaveri ed esporli nudi sul balcone del palazzo. Un monito imperituro di offesa lavata nella vendetta più turpe. La folla, come è facile immaginare, si accalcò rapidamente in piazza e la notizia dell’omicidio di vicolo in vicolo si sparse rapidamente in tutta la città. Si parla anche dell’omicidio del figlio piccolo, la cui discendenza era dubbia a quel punto agli occhi di un folle. Circostanza, però, mai confermata.
Carlo Gesualdo principe di Venosa il compositore assassino, fuggì subito dopo il misfatto da Napoli e si rifugiò a Gesualdo, in Irpinia. Il processo venne archiviato il giorno dopo la sua apertura “per ordine del Viceré stante la notorietà della causa giusta dalla quale fu mosso don Carlo Gesualdo Principe di Venosa ad ammazzare sua moglie e il duca d’Andria”. I fatti emersi dalle deposizioni non lasciavano dubbi. Maria d’Avalos era l’amante di Fabrizio Carafa. L’epilogo terribilmente ingiusto di una storia terribilmente comune.
Dopo la cronaca il folklore
Da questo momento, però, la storia finisce e iniziano le leggende. Nascono ballate, voci popolari che alimentano la percezione di Carlo Gesualdo Principe di Venosa, il compositore assassino, come la figura di un demonio e a buon diritto. Un principe sanguinario capace di strappare il frutto illegittimo della colpa dal ventre di Maria morente.
Scenario di questo evento drammatico è il Palazzo San Severo, situato a Piazza S. Domenico Maggiore, che fu costruito intorno al XVI secolo da Paolo Di Sangro. Si narra che, da quel giorno in poi, ogni singola notte, coloro che vivevano nei pressi del Palazzo riuscivano a sentire in maniera distinta la voce di Maria, per secoli e secoli.
Pare, dico pare, che nel 1889 un’ala del Palazzo sia crollata, facendo emergere proprio la stanza dove avvenne il tragico epilogo. Un faro acceso su quella notte di sangue, che ha dato vita alla leggenda secondo la quale il fantasma di Maria D’Avalos. Una presenza che, con ritrovata forza e disperata tenacia, continua ad aggirarsi di notte per la piazza. Maria indosserebbe abiti lacerati alla ricerca, come in ogni storia di eterno tormento che si rispetti, del suo amore perduto. Ad oggi, il Palazzo San Severo rappresenta una delle pagine più affascinanti e tristi della storia di Napoli.