Napoli e la mostrite
Roma, Galleria Borghese, 8 giugno 2021: viene presentata la mostra di Damien Hirst Archaeology now, in cui oltre ottanta opere prelevate dal relitto dell’Unbelivable vengono esposte al pubblico; Napoli, Basilica Santa Maria Maggiore alla Pietrasanta, 14 aprile 2022: Dalì incontra Hitchcock, una mostra in cui viene presentata per la prima volta la scenografia realizzata dal maestro Catalano, per il film del celebre regista del brivido.
Qual è il filo rosso che unisce questi due eventi? Semplice: in entrambi i casi si assiste alla riesumazione di relitti appartenenti ad un passato remoto che, nel primo, diventa attraverso la fiction un espediente per fare decostruzione di sé – alla stregua di un atteggiamento affine a quello della critica istituzionale -, mentre nel secondo è – purtroppo – reality ed esaltazione di quell’atteggiamento prettamente italiano che consiste nel fenomeno della mostrite, un virus che prolifera da prima che si parlasse di covid-19.
Noto anche con il nome di mostre blockbuster – termine che deriva dal dizionario bellico della seconda guerra mondiale, utilizzato per indicare dei bombardamenti a tappeto -, si tratta di quei fenomeni della pseudocultura in cui avviene una mutazione da prodotti di nicchia a icone mitologiche pop, status symbol di facile accesso intellettuale per i non addetti ai lavori.
Il fenomeno della mostrite potrebbe essere letto con un’accezione positiva, nella misura in cui il raggiungimento delle grandi masse dimostrerebbe un’ascesa da parte dell’interesse sociale a favore di iniziative culturali.
Tuttavia, il fenomeno si inserisce in un circuito in cui lo spettatore si comporta da consumatore a cui viene offerto cibo precotto, minestra scaldata, che tra l’altro non nutre e non si offre come soglia ma, al contrario, fa si che si resti un mediocre al di qua. Al di dentro di una visione sincretica e superficiale chiusa in «un’effimera spettacolarizzazione fine a sé stessa» (Cesare Brandi).
In questo clima asfittico non è lo spettatore che si avvicina all’opera ma, al contrario, quest’ultima che cambiando i connotati semantici diventa di facile accesso, di facile consumo. Il tutto confezionato in una narrazione di una storia dell’arte che crea idoli e reliquie.
Federico Zeri nel 1996 parlava di «pleiadi di mostre e mostriciattole, spesso insignificanti, inutili, a base commerciale e promozionale»
Ed è in questo senso che la visita rischia di diventare un qualcosa da ricondurre all’ambito dello svago. Mostre che non richiedono impegno nel fruitore, ma pura inerzia; che sono alla mercé della leggerezza, che lasciano intendere che la cultura si possa ingerire tra un selfie e una passeggiata; che da luoghi della riflessione si trasformano in passerelle dello spettacolo debordiano; mostre che si fondano «sull’ideale del consumatore di mass media [del] superuomo che egli non pretenderà mai di diventare, ma che si diletta a impersonare fantasticamente, come si indossa per alcuni minuti davanti a uno specchio un abito altrui, senza neppur pensare di possederlo un giorno» (Eco).
Esteriorità e superficialità diventano i valori assoluti in questi contesti in cui appunto la soddisfazione del fruitore passa unicamente dalla clamorosità dell’evento, in cui l’opera si eleva a reliquia sacra, by-passando il «dovere della riflessione» (Longhi) e senza mai arrivare al nocciolo della questione.
E infatti, uno dei rischi più frequenti consiste la riesumazione dei «soliti noti» fa «intendere al pubblico meno avvezzo della storia dell’arte occidentale che questa sia un piccolo orto angusto abitato da poche grandi personalità», per dirlo con parole di Antonio Pinelli.
La democratizzazione passa attraverso l’idolatria del «diktat demagogico dell’auditel» (Montanari), che ha a cuore soltanto il numero degli spettatori e non la loro effettiva crescita culturale. E quella che ormai sembra essere una consuetudine rischia di rimanere sullo stomaco di chi ha un minimo di attitudine alla decostruzione critica di quei fenomeni che gli vengono propinati in tal senso.
L’opera dell’artiststar di turno non ha l’ambizione di voler essere decostruita o capita, si offre al limite come un oggetto culturale di facilmente digeribile
Napoli – e non solo – negli ultimi anni sembra soffrire di mostrite, risultando essere invasa da eventi che testimoniano una deriva culturale in forte ascesa. Le conseguenze della mostrite sono appunto quelle di ritrovarsi in eventi mordi e fuggi che offrono un qualcosa di approssimativo, conseguenza della fretta, della carenza nella ricerca propedeutica in concomitanza con la spettacolarizzazione dell’evento stesso.
«Quadri che un tempo avevano avuto capacità di esprimere un preciso significato perdono il loro spessore semantico e simbolico: vengono ridotti a oggetti che possono procurare (al massimo) una vaga soddisfazione visiva» (Montanari)
Ed ecco che in un territorio ricco come quello campano ci si sforza di raccontare una storia dell’arte egemonica, costruita con i soliti ingredienti nazionalpopolari: Impressionisti, Andy Wharol, Van Gogh e Dalì.
A questo punto la domanda sorge spontanea: ma è davvero necessario offrire mostre dettate unicamente da un sicuro rientro in termini economici, a discapito dell’ingenuità del pubblico che assorbe nozioni e concezioni fuorvianti e spesso romanticamente anacronistiche – a discapito di quelle «contemporaneità multiple» (Claire Bishop) che invece restano lì, tra gli angoli remoti di un’Unbelievable che non è ancora stata recuperata e che vive in una storia che non è stata ancora raccontata -?