Archeologia da spiaggia di Maurizio Finotto
Frammenti sapientemente esposti come ricostruzioni di antichi mosaici risultano essere invece – soprattutto agli occhi di chi quel pezzo di quotidianità l’ha vissuta – banalissimi involucri e confezioni di patatine.
Questo è uno dei tanti casi di archeologia da spiaggia in cui ci si può imbattere all’intero del percorso espositivo (a cura di Melania Rossi) inaugurato il 28 aprile presso il Museo Archeologico di Napoli.
Le tematiche affrontate da Finotto fanno da pendant a quell’archeologia del desueto, e anzi, del fallimento del sogno industriale che ha fatto tanto parlare del padiglione Italia di Tosatti e Viola.
Maurizio Finotto (Venezia, 1968) raccoglie infatti da circa dieci anni oggetti di plastica abbandonati o trascinati dalla risacca fra i litorali del bel Paese. I rifiuti, attraverso assemblaggi improbabili, raccontano e testimoniano modi, usi e consumi di un passato prossimo che parla ancora la nostra lingua.
La finzione come analisi critica del presente
Ciò che più colpisce della mostra di Finotto è la contrapposizione tra storiografia e narrazione fantastica. Ma perché organizzare un evento che porta negli spazi del museo– e quindi nelle dinamiche delle mostre d’arte – mélanges di pura fantasia narrativa?
La risposta è insita in quella capacità nel raccontare il proprio tempo che contraddistingue l’arte contemporanea, e che nel farlo ne ricava una narrazione proprio a partire da quegli oggetti che caratterizzano la cultura del quotidiano.
Il fatto che si mettano in dialogo opere celebri della collezione – come il canopo di Ka-uab in alabastro o una mano in terracotta, ex voto proveniente dall’area sacra santuario di Ponte delle Monache nel territorio di Calvi Risorta – con spazzatura assemblata in maniera volutamente pretestuosa, fa si che attraverso l’espediente della fiction l’intera operazione si ponga come una sorta di specchio.
Si tratta di creare un grande affresco che in qualche modo racconta lo stato delle cose, il tutto racchiuso nell’intenzione di proporre l’idea della finzione all’interno di uno spazio museale.
L’estetica del consumo non è cultura di serie b, ma è utile alla comprensione di questo tipo di struttura narrativa. E Finotto, attraverso questi elementi, offre una riflessione sul come funziona oggi la mostra, che cos’è e a cosa serve. Ed è indubbiamente una riflessione che sfiora la critica istituzionale.
Il senso dell’opera di Maurizio Finotto non è da ricercarsi nella pretestuosità dei dettagli, quanto nella struttura curatoriale in sé
L’opera di Finotto può esistere soltanto all’interno di uno spazio museale perché è di questo ci parla. È il coinvolgimento immersivo del clima generale che assorbe il virtuosismo esecutivo dei singoli manufatti. In definitiva, il dettaglio è dentro la narrazione.
La mostra – che è un insieme di dettagli di varia natura – risulta essere uno stare dentro l’insieme. Si tratta di un lavoro che riflette sulle trasformazioni della funzione del museo e dello spazio museale nella dimensione in cui crea una grande metafora dentro la quale il pubblico si immerge.
Quella proposta dall’artista è una forma che si misura con le metodologie della narrazione storiografica, sovrapponendosi ad esse. La crasi tra verosimile e fake è a sua volta una lettura dello stato delle cose, delle incertezze e delle difficoltà che si legano a pratiche complesse come quella della ricerca archeologica.
Finotto veste infatti i panni dell’archeologo: esplorazione, ritrovamento, conservazione, interpretazione, nuova esposizione del manufatto sono i passaggi seguiti dall’artista. Ecco quindi che i canopi in plastica, rappresentano nuove divinità legate alla società dei consumi: da Svitol, «probabile protettore delle Porte della Luce», fino ad arrivare a Nelsen, con testa a guisa di pipa di origine misteriosa, – in cui in molti riconosceranno un celebre gelato degli anni ottanta – forse identificabile con una divinità.
Al di là di quella che potrebbe essere intesa come manovra creativa fine a sé stessa, è la fiction vera protagonista di tutta l’operazione. Gli inserimenti pretestuosi si coniugano ed esaltano per eccessi il carattere di finzione del museo – in sé grande narrazione di una collezione nobile.
C’è stato un tempo in cui le anfore greche venivano adoperate nella loro concezione meramente funzionale. Lo stesso accadeva per gli oggetti che appartengono ad un passato più prossimo e che Finotto ha raccolto. Nel secondo caso persiste una riflessione sulla consacrazione ad oggetto d’arte, testimonianza di stratificazioni temporali fatte di usi e consumi che spesso vanno perduti.
Opere in cui traspare una certa sensibilità verso tematiche quali l’ecosostenibilità e la salvaguardia dell’ambiente, che ci lasciano con un quesito che fa da monito: sono forse questi i manufatti che vogliamo consacrare alla posterità – ammesso che di questo passo ne esisterà una?