Che cos’è la Parlèsia?
Un chiaro di luna, la fresca brezza di una sera di maggio, un balconcino adorno di fiori. Dietro ai vetri una ragazza ascolta: il suo spasimante è in strada, accompagnato da suonatori di chitarra e mandolino, intona una dolce melodia. Un idillio un po’ retrò che ci porta alla mente il topos della serenata. Niente di più romantico o melenso direte. In realtà, accantonando i sentimenti degli innamorati, presenti sulla scena ci sono anche dei lavoratori: i musicisti o meglio i posteggiatori che stanno “appunendo una santosa” per “ ’o jammë ra bbanèsia” (eseguendo una serenata per un committente). Ecco un esempio di Parlèsia, lessico degli iniziati alla consorteria dei musicisti di strada.
I vari gerghi della mala
Conosciamo il gergo degli affiliati alla “onorata suggità” ottocentesca grazie allo studio che l’antropologo Emanuele De Blasio fece sui camorristi ospiti delle patrie galere del regno. È noto l’Argot parigino parlato alla “corte dei miracoli“, il Furbesco, lo Zerga, lo Zingaresco usato in tutta la penisola dalla mala o dai furfanti professionisti. Che cos’è la Parlèsia? Come mai dei semplici musici avevano bisogno di un linguaggio esoterico usato per poter comunicare in pubblico senza farsi capire dagli estranei?
Da menestrelli a criminali, la nascita della Parlèsia
Nel XVI secolo quando le compagnie di girovaghi (attori, saltimbanchi, musicisti) venivano considerati alla stregua di criminali. Quella del musicante, non era vista come una professione altamente apprezzata come lo è oggi. Anzi, i musicisti erano una specie di popolazione nomade, sempre in giro a suonare per guadagnare pochi spiccioli per poi andare in osteria. Dedita ai piaceri più viziosi della vita e per questo considerati alla stregua dei malavitosi.Il potere, esercitato dalla Chiesa e dai Viceré, guardava con occhio sospetto chiunque esercitasse un mestiere di strada. La stessa libertà dei musici ambulati poteva trasformarsi in un pericolo per l’ordine costituito. Infatti al popolo i posteggiatori piacevano, e molto. Questi elaboravano nuove rime e musiche per esprimere ironicamente, sotto forma di innocue canzoncine, quei malumori nei confronti della casta dominante che la gente comune non poteva rivelare, pena la morte. Iniziarono così ad inventarsi questa linguaggio da consorteria, un dialetto nel dialetto a cui venne dato il nome di Parlèsia (dal catalano Parles, linguaggio).
Struttura linguistica e diffusione storica
La Parlèsia non ha neologismi, adotta i vocaboli della lingua napoletana alterandone il significato, decontestualizzandolo a secondo della situazione. Verbi fondamentali del gergo sono Appunire e Spunire, usati rispettivamente per evidenziare gli aspetti positivi e negativi di una situazione. Le caratteristiche fonetiche e sintattiche della composizione di una frase rimangono invariate rispetto alla parlata comune. Rimasta in uso ed ancora ad appannaggio dei soli iniziati, fino alla metà del secolo scorso quando ancora tantissimi erano i musicisti che lavoravano ad ingaggio e si riunivano sotto la Galleria Umberto I in attesa di essere scritturati. Racconta lo storico della musica Roberto De Simone, nel suo libro Satyricon a Napoli ’44, che durante l’occupazione alleata se ne facesse ancora largo uso soprattutto per confondere i soldati anglo-americani. Con l’avvento della tecnologia di massa e l’arrivo di radio e giradischi la parlesia sembrò estinguersi insieme ai posteggiatori.
La riscoperta della Parlèsia come simbolo identitario e di protesta
Ma negli anni Settanta del secolo scorso una nuova scuola di musicisti si affaccia sulle scene della canzone napoletana. Non piu dolci melodie ma canzoni di protesta, non solo chitarre e mandolini ma sassofoni e bassi elettrici. L’impegno sociale gridato a pieni polmoni fa di questi artisti un megafono della coscienza di questa città. La Napoli d’animo nobile che non si piega al degrado culturale imposto dalle condizioni di vita sfavorevoli. Causate a loro volta per effetto del controllo della malavita sui gangli vitali dell’economia . Un’autentica forma di resistenza artistica alle storture che da sempre attraversano quella città e tentano di insultare l’assoluto valore della sua storia e della sua cultura. Pino Daniele, James Senese, Tony Esposito, Tullio De Piscopo, Franco Del Prete, Joe Amoruso, Ernesto Vitolo, I fratelli Bennato, Mario Musella, Enzo Avitabile oppure gruppi come la Nuova Compagnia di Canto Popolare solo per citarne alcuni. La Parlèsia rifiorisce sulle bocche dei nuovi menestrelli come simbolo identitario contro l’omologazione culturale. La Parlèsia viene riportata in auge proprio ed entra a far parte dei testi delle canzoni come come Tarumbò e Bella ‘Mbriana.
“I vagabondi, il gergo, i posteggiatori. Dizionario napoletano della parlèsia”
Per chi volesse capire fino in fondo che cos’è la Parlèsia può leggere illibro della ricercatrice Maria Teresa Greco (Edizioni Scientifiche Italiane, 1997). Estratti dal vocabolario, alcuni lemmi in maniera esplicativa.
ANDARE PER LA CHETTA – “girare il piattino fra i clienti”. APPUNÌ – “capire, arrivare, combinare, lasciar credere, e via di seguito secondo porta il discorso”.BBÀCHËNË – agg. “inetto”. BBAGARIA – “l’atto sciocco, inutile, dannoso”. A CCAUTTË – “qui, a destra”. A LAUTTË – Di là, a sinistra `a CHIBBUÈNZIA –“il cibo“.`a CHIARÈNZIA – “il vino”. E vigliandë – gli spettatori. Crasto –piattino. A sëntosa – la serenata. Ecc ecc.