«Magnammo, amice mieje, e po’ vevimmo, nfino ca stace ll’uoglio a la lucerna: chi sa’ si all’auto munno nce vedimmo! Chi sa’ si all’auto munno nc’è taverna!»
Nell’articolo precedente abbiamo raccontato il perché della definizione “la terra del vino e del mito“. Parlando del antichissimo rapporto simbiotico che lega il vino alla Campania in generale e a Napoli in particolare. Una osmosi resiliente, come le nostre viti, attraversa i secoli e le dominazioni succedutesi nel tempo. Noteremo che, cambiando le epoche, i miti diventano favole e leggende. Leggiamole insieme:
Il vino dello “Stupor Mundi”
Alla corte dello Stupor Mundi Federico II di Svevia, il vino di prammatica era il Fiano. Da un documento storico si evince che il re preferisse a tal modo questo vino, da farne trasportare migliaia di viti dal territorio d’origine nell’avellinese per impiantarle nella piana foggiana e seguirne lui stesso la vinificazione. Il termine Fiano deriva dalla volgarizzazione del termine latino “Apiana“(attorniato dalle api). Così gli antichi definivano i grappoli di queste uve, talmente zuccherine, da attirare interi sciami d’api nelle vigne.
La favola Angioina
Quando salì sul trono di Napoli Carlo I d’Angiò, fu talmente colpito dalla bontà del Fiano, da sceglierlo per trapiantarlo nelle terre acquisite in dote matrimoniale: la Provenza e le colline ad est delle Ardenne. Suo nipote re Roberto non volle essere da meno all’avo. Incaricò infatti il Cantiniere di Corte, Louis Pierrefeu, di ricercare un nuovo vitigno degno di un sovrano, per impiantarlo nei possedimenti aviti. La leggenda narra che il povero Pierrefeu, sfinito dalla lunga e improduttiva ricerca si appoggiò ad un albero di pioppo nei pressi della città di Aversa. Grande fu il suo stupore quando alzando gli occhi al cielo vide grappoli di uva all’altezza di quasi venti metri. Chiese allora ad un contadino di assaggiare il vino con tali uve prodotte. Il villico gli porse un bicchiere di Asprinio, chiamato così perché aspro e frizzante, leggero e tremendamente accattivante.
Gli antenati dello Champagne
Il cantiere di corte subito capì si aver trovato un tesoro. Consegnò ad un felicissimo re Roberto le vite che subito fece importare in Francia, nella regione ormai chiamata Campania per le coltivazioni di uve provenienti dalla “Campania Felix“. Nei secoli il termine si francesizzo in “Champagne“. Il Fiano e l’Asprino dunque, sarebbero gli antenati del famoso Champagne francese iniziato a produrre solo nel XVI secolo.
I Vini e l’amore cortese di Alfonso V d’Aragona
Di origini spagnole ed importati dai regnanti aragonesi nel XV secolo sono la Biancolella, prodotto nella splendida cornice dell’isola d’Ischia e la Catalanesca di Somma Vesuviana. Ai celeberrimi e preziosi nettari citati è legata una leggenda di “amore cortese”. Re Alfonso V s’innamorò di una bellissima fanciulla napoletana di nome Lucrezia D’Alagno. Essendo il re già sposato non poté impalmare la donzella, ma la nominò Signora d’Ischia e di Somma Vesuviana. In suo onore fece piantare il secco e fruttato Biancolella nell’Isola Verde per berlo gelato in estate nelle alcove del Castello. Il dolce e leggermente frizzante Catalano, dalla maturazione tardiva, fu innestato a Somma per sorseggiarlo in inverno nel rifugio d’amore fatto costruire per Lucrezia, il Castello D’Alagno.
I Vini Borbonici
Ferdinando IV di Borbone, oltre ad essere un’amante dei vini e della buona tavola, fu anche agronomo dilettante. Nella tenuta Reale di San Leucio, dove già insisteva il Reale opificio della Seteria, volle una vigna che raccogliesse i migliori vitigni del suo regno. La fece progettare dall’architetto Luigi Vanvitelli. Nacque così, sulle dolci colline del casertano, la Vigna del Ventaglio. Il geniale architetto napoletano, sfruttando la conformazione orografica della zona, creò questa particolare piantagione dall’effetto scenografico. Dall’ingresso della stessa si dipartono dieci viali che segmentano un semicerchio perfetto. All’ingresso di ogni viale una lapide di travertino portava inciso il nome del vitigno e la zona d’origine. Questo esperimento topiario-agricolo creava il doppio beneficio di produrre vini ad esclusivo uso della Casa Reale, nonché di essere a tutti gli effetti un “luogo di delizia“. I vini prodotti erano il Delfino, il Terranova, il Corigliano, il Lipari, il Siracusa, il Procopio ma soprattutto il Piedimonte.
“Pallagrello” o il “vino del re”.
Re Ferdinando amava a tal punto il sapore e la qualità del Piedimonte da farlo divenire il vino ufficiale della Casata Borbonica. Solo gli ospiti illustri o i delegati delle corone straniere potevano riceve l’onore di avere in dono una bottiglia di “Pallagrello” (così i contadini casertani chiamavano tale tipo di uva riferendosi alla forma sferica dei suoi acini). Tale fu la passione per il Pallagrello che Ferdinando IV fece affiggere divieti di transito nei presi dei vigneti, per non disturbare la maturazione delle stesse. Una di queste lapidi è conservata nel paese di origine del Pallagrello, a Piedimonte Matese in località Monticello.
Storie di uomini, di vino, di mito e di leggenda che la nostra terra ci regala anche nei gesti più semplici come brindare…
Addò Va!