Il periodo Vicereale napoletano (1503 -1688) è ricordato dagli storici come uno dei momenti peggiori nella storia della città. Le torture del boia della Vicaria, inflitte ai malcapitati per ordine dei reggenti di turno, sono uno dei simboli dell’imbarbarimento politico e sociale. Effetto collaterale ad una politica di repressione amministrativa che vedeva i sudditi solo come entità da tassare senza stimarne bisogni e dignità. Causa non ultima dei moti e delle insurrezioni popolari che si ebbero in quei difficili anni.
“Che bella jurnata, e nisciuno se ‘mpenne!”, dicette ‘o boîa d’ ‘a Vicarîa…
I tribunali Napoletani riuniti a Castel Capuano
Fino al 1535 la giustizia civile e penale del vicereame napoletano veniva amministrata in diversi luoghi: la Gran Corte a Forcella; il Sacro Consiglio nel chiostro di Santa Chiara; la Real Camera della Sommaria nella chiesa di San Lorenzo; il Tribunale della Bagliva era sulle scale della chiesa di San Paolo e il Tribunale della Zecca nel palazzo di fronte alla chiesa di Sant’Agostino. Tra il 1537 ed il 1540, Don Pedro de Toledo, viceré di Napoli, trasferì i Tribunali e gli altri uffici giudiziari in Castel Capuano. L’esigenza era quella di accentrare in un unico luogo tutte le attività legate all’amministrazione della giustizia. La Vicaria è un antico quartiere situato a ridosso del centro antico che si espande tra la zona di Forcella e la zona posta al di qua ed al di là di Porta Capuana.
La triste arte del boia della Vicaria
Il boia (dal latino boiarum, “strumento di supplizio”) era chi aveva l’incarico di eseguire le sentenze, non solo di morte, ma anche i supplizi comminati in fase processuale. Figura temuta dal popolino per il suo triste ufficio, era definito dai napoletani “Mastù mpenna” (mastro impicca). Le torture del boia della Vicaria erano varie e crudelmente fantasiose. Raccontano le cronache dell’epoca (Diurnali – G. De Montemayor) che il coltello del carnefice, serviva per eseguire la condanna alla mutilazione. Tale tortura era riservata ai più poveri che non avevano i mezzi per pagare le esazioni gravose. Poteva prevedere l’asportazione di occhi, il taglio di orecchie e nasi. Per i ladri colti in fragranza, il taglio della mano sinistra, in caso di recidiva, della mano destra.
Il popolo affascinato e ammonito dalle crudeltà
Le pubbliche esecuzioni erano uno degli spettacoli preferiti dal popolino che, non solo trovava queste pratiche ripugnanti di proprio gradimento, ma partecipava attivamente alla somministrazione dei supplizi. Per esempio in caso di Lardeatura, (tortura comminata ai sodomiti) era previsto il dilaniamento delle carni con tenaglie infuocate e soprattutto scottature operate con l’uso di pezzi di lardo (da cui lardïata) bollente che venivano soffregati sul corpo del condannato. La prammatica prevedeva che il reo sfilasse per le strade della città legato su di un carro. Ad accompagnarlo non vi era solo il carnefice, ma anche le imprecazioni e gli insulti della gente che assisteva al tragico corteo, in un deprecabile spettacolo montato ‘ad hoc’ come deterrente per la plebe, al fine di mostrare le irreparabili conseguenze nel commettere un reato.
le torture del boia della Vicaria: declinazioni di terrore
Supplizi riservati ai falsari erano la La Palïata e la Mazzïata. Il condannato veniva portato al luogo dell’esecuzione legato ad una grande ruota di legno. Tale ruota veniva poi fatta girare su di un asse conficcato nel terreno. Mentre la ruota girava il boia spaccava le ossa al reo servendosi di un grosso martello da fabbro ( ‘a mazzetta) o di una bastone di legno (la paliata era l’attrezzo con cui il fornai infornava i pezzi di pane), facendo attenzione che lo stesso non morisse a causa delle percorse ricevute. Alla fine del tormento il boia provvedeva a impiccare il reo, mentre era ancora appeso lo squartava con un coltellaccio. Diviso poi il corpo in quattro parti, poneva i pezzi in altre tante gabbie di ferro ( ‘e cascette da cui il lemma napoletano “Jì a fernì cu ‘a capa ‘int’ ‘a cascetta”) che venivano esposte sulle porte cittadine.
Mastro impicca Impiccato
“ s’addà tenè amicìzia pure c’ò boîa a Vicarîa” , ammoniva un antico detto partenopeo, invitando ad intrattenere rapporti di amicizia anche con chi svolgeva la più infame delle professioni. Soprattutto con il boia, che avrebbe avuto la possibilità di eseguire la tua condanna a morte in modo rapido, senza lasciarsi trasportare dalla crudeltà. Considerando questo è il caso di raccontare quanto avvenne al boia della Vicaria Antonio Sabatino, impiccato nel 1651.
la storia di Antonio Sabatino
Lercia consuetudine dei carnefici era quella di recarsi dalla famiglia dei condannati e pretendere una tangente per eseguire la loro opera in maniera veloce. Intascata dalla famiglia la somma estorta andavano poi dalla parte offesa offrendosi di torturare il condannato con maggiore ferocia se gli fosse stata versata una quota extra. Tale mercimonio operava anche Antonio Sabatino. Denunziato per la tentata estorsione dalla bennata famiglia Taglialatela, venne arrestato e rinchiuso nelle carceri della Vicaria. Il boia venne condannato dalla Gran Corte a essere mazzolato e poi impiccato. La sua testa, spiccata dal collo venne esposta per mesi sulla torre di Porta Capuana. I beni del perfido carnefice confiscati e quindi donati alla Compagnia dei Bianchi della Giustizia.