La primavera del 1702 fu particolarmente intesa per quell’affascinante Napoli barocca in cui decadenza e meraviglia si mescolavano dando vita ad un unicum ineguagliabile. Tra l’aprile e il giugno di quell’anno i napoletani ebbero l’onore -e l’onere- di ospitare un giovanotto di grandi prospettive, accompagnato da un’infinità di nobili, funzionari e soldati.
Nobiltà e clero locale scalpitavano alla sola idea di poter incontrare quel rampollo venuto da lontano, nella speranza di ottenerne l’attenzione e favori. Le grandi famiglie non badarono a spese: Napoli si animò di cortei in festa e saltimbanchi mentre gli operai sistemavano le strade principali della città. Costui era niente meno che il duca d’Angiò Filippo di Borbone, diciottenne fresco e contestato sovrano di Spagna e, quindi, anche dell’antico regno di Napoli.
Un’intera città in festa…
Salpato da Barcellona il sovrano approdò sulle coste campane il 16 aprile. Sin dall’arrivo Filippo V fu accolto da spari di cannoni e applausi, mentre per il soggiorno a Napoli fu messo a sua disposizione il palazzo Ischitella. Le settimane successive furono l’occasione per re e sudditi di “studiarsi” a vicenda, visti anche i bollenti spiriti antispagnoli mai sopiti tra la popolazione napoletana. Il re ebbe modo di ricevere presso la sua momentanea corte il meglio dell’aristocrazia del regno. Curiosamente però, le nobildonne poterono incontrarlo (e baciargli la mano) una sola volta; pare che presso i francesi -come Filippo- fossero diffusi pregiudizi sulla lascivia dei napoletani .
L’importanza dell’evento venne cristallizzata nella coniazione di monete commemorative, ma carlini d’argento raffiguranti Filippo V erano già stati coniati e distribuiti dopo l’epifania del 1701, quando vi fu l’acclamazione come re di Spagna anche a Napoli. Inoltre fu iniziata una statua equestre da collocarsi in Piazza del Gesù, inaugurata solo tre anni dopo.
Il calore di un’accoglienza simile spinse il re a confermare i privilegi già posseduti dalla nobiltà cittadina, incontrando per questo grande favore e allontanando i timori di una possibile deriva autoritaria. Calandosi appieno nelle dinamiche dei sudditi la mattina del 18 maggio Filippo si recò al Duomo di San Gennaro per assistere alla liquefazione del sangue, ma il mancato evento contrariò il re a tal punto da farlo desistere, salvo ritornare nel pomeriggio ed essere finalmente testimone del miracolo.
Due giorni dopo entusiasmò il popolo passeggiando a cavallo per le vie della città in pompa magna. Non mancarono feste e banchetti fino a tarda sera. Per l’occasione si esibì anche Arcangelo Corelli, uno dei maggiori violinisti dell’epoca. Filippo lasciò la “sua” Napoli il 2 giugno portando con sé, tra l’altro, alcuni pastori del presepe napoletano ricevuti in dono.
..nonostante le vecchie ruggini.
Filippo V ereditò il regno napoletano come parte del grande lascito concessogli da suo zio materno, il re di Spagna Carlo II d’Asburgo. Quest’ultimo morì nel novembre del 1700 senza figli, dopo un’esistenza falcidiata dalla malattia. L’incertezza sulla successione provocò malcontento tra i pretendenti, soprattutto quando uno dei testamenti scritti da Carlo indicò come unico erede proprio Filippo. Queste vicende nel giro di poco tempo scatenarono una guerra civile in Spagna e un conflitto su scala internazionale di enormi proporzioni; in entrambi i casi si affrontarono in sostanza filoborbonici e filoasburgici per oltre un decennio.
La rivalità tra queste fazioni rispecchiava anche l’idea di governance che ciascuna di essa recava con sé. Mentre gli Asburgo erano più inclini a patteggiare con i ceti (nobiltà, clero, città) eventuali privilegi e diritti in cambio di obbedienza e collaborazione, non proprio lo stesso valeva per i Borbone di Francia. Filippo V infatti era non solo nipote degli Asburgo dal lato materno ma anche nipote dei Borbone in quanto suo nonno paterno era Luigi XIV, cognato di Carlo II.
Il Re Sole aveva cresciuto l’amato rampollo direttamente a Versailles, dove nacque nel 1683. Luigi XIV è passato alla storia come l’incarnazione del potere assoluto, che in linea di massima non ammette accordi, ma solo obbedienza ed efficienza. Pertanto il cambio dinastico sul trono spagnolo spaventò quei regni e quei ceti che erano abituati a contrattare col re o con i suoi rappresentati. Finire nelle grinfie dei Borbone avrebbe significato per molti dignitari perdita di prestigio e impossibilità di mantenere i privilegi. Questi ultimi erano di fatto indispensabili per la sopravvivenza dei ceti stessi (dalle esenzioni fiscali, alle rimostranze fino al diritto di resistenza).
Questi discorsi erano presenti anche all’interno della nobiltà napoletana. L’incoronazione di Filippo a Madrid e l’inizio della guerra di successione spagnola accelerarono il mormorio strisciante a Napoli. In una notte del settembre del 1701 alcuni nobili partenopei diedero vita alla celebre congiura di Macchia, tentativo fallito di rovesciare il viceré spagnolo e offrire il regno ai più graditi Asburgo di ramo viennese. L’episodio, seppur represso nel sangue, suggerì al giovane sovrano di recarsi quanto prima in visita ai napoletani. Si trattava in effetti di sudditi non facili da domare, come decenni prima la rivolta di Masaniello aveva dimostrato.
L’inizio della grande Napoli borbonica
Tecnicamente quello di Napoli era un “regno che non regnava”. Sin dagli ultimi anni del XV secolo le funzioni di governo erano affidate a dei viceré prima da parte dei sovrani francesi e poi per volere di quelli aragonesi, subentrati ai primi nel dominio del regno napoletano in seguito alla battaglia del Garigliano (dicembre 1503). Pertanto i napoletani del primo Settecento non erano abituati ad avere in città la corte reale, normalmente situata altrove.
Una vera corte napoletana si poté avere solo quando il regno tornò ad essere davvero tale e non più trattato come un vicereame satellite. Dopo la breve dominazione austriaca dovuta agli accordi di Utrecht, il regno di Napoli tornò ad essere governato dai Borbone grazie all’impresa bellica dell’infante Carlo, figlio proprio di Filippo. Nel 1734 su concessione del padre Carlo fu acclamato festosamente sovrano del regno di Napoli, pur sempre legato indissolubilmente alla corona spagnola ma almeno formalmente autonomo da essa. La presenza di una corte e della famiglia reale a Napoli permise alla città di vivere un’epoca di grande sviluppo artistico, culturale e architettonico di cui ancora oggi si possono apprezzare le tracce.