
L’arte contemporanea
Ripercorrendo la storia del Museo di Capodimonte possiamo vede come questi non abbia sempre avuto una sezione di arte contemporanea, ma che questa si stata aggiunta solo negli ultimi quarant’anni, a partire dalla fine degli anni ’70. Nel 1978 si tenne una grande mostra antologia per Alberto Burri, grande artista dell’arte informale italiana, che decise di donare al museo il Grande Cretto Nero. Quella di Burri è stata la prima di tante acquisizioni ed esposizioni che hanno portato Capodimonte a essere un museo
“completo”
in cui il fruitore ha la possibilità di poter osservare durante la stessa visita si i dipinti antichi, di epoca medievale, che quelli recenti di epoca contemporanea.
Burri, artista
Potremmo dire che Alberto Burri sia quasi un artista d’evasione. Nato a Città di Castello nel 1915 e laureatosi in medicina nel 1940, l’artista abruzzese partecipò alla campagna d’Africa come ufficiale medico. Durante il periodo di ferma venne fatto prigioniero dagli americani in Tunisia e internato in un campo di prigionia a Hereford in Texas dove
iniziò a sperimentare l’arte come una forma di evasione dalla prigionia.
Tornato in Italia nel 1946 intraprese la carriera artistica con una prima mostra personale a Roma nel ’47. Dalla fine degli anni ’50 in poi Burri iniziò a rivolgersi verso un’arte in cui il materiale, prettamente oli, catrame, pietra, sabbia, colle, interagisce con la tela creando una composizione organica. Burri, nel suo percorso artistico ricco di sperimentazioni realizza diverse serie da quelle dei primi anni ’50, Neri, Gobbi, Muffe e Sacchi, a quelle delle Combustioni (’57), Ferri (’58), Legni (’59) e le Plastiche nei primi anni ’60. Dal decennio successivo iniziò a dedicarsi alle serie dei Cretti e dei Cellotex, opere in cui la monumentalità e la proporzione di forme e colori assoluti la fanno da padrone.
Burri e il Cretto
Cos’è il Grande Cretto Nero? Partiamo da un presupposto: spiegare il cretto. I cretti sono
superfici piene di fessure, spaccature,
se visti da distanza possono ricordare la terra spaccata durante l’apice della siccità. Bene o male il tipo di lavoro dietro ogni cretto sembra essere sempre lo stesso. Per realizzare la sua opera l’artista distendeva un impasto di costituito da bianco, zinco e colle a base vinilica con l’aggiunta di terre colorate sulle superfici di cellotex alla base del cretto. Successivamente si lasciava asciugare e essiccare il tutto per ottenere l’effetto spaccatura, o meglio cretto, sulla superficie che successivamente veniva rivestito da più strati di colla vinilica per renderlo solido.
Si tratta di opere di diversi metri, basti pensare che il Grande Nero di Capodimonte occupa un’intera parete, per una superficie di circa 75 mq. Quello di Capodimonte, però, è minuscolo se messo a confronto con il più grande in assoluto, il Grande Cretto realizzato nel 1985 come opera di land art per rivalutare Ghibellina vecchia, cittadina del Belice distrutta dal terremoto nel 1968. Nel caso di Ghibellina Burri fece realizzare
una struttura di circa 65.000 mq, tra il 1985 e il 1989 in cui la struttura stessa del cretto era costituita dalle macerie della città inglobate nelle strutture di cemento armato del cretto.
Il progetto era di riportare nelle spaccature del cretto la pianta fedele per dimensioni e rilievi l’intera città scomparsa nel terremoto andando a costituire un immenso monumento al ricordo di quell’evento.
Artisticamente parlando i cretti rivestono per Burri una certa importanza perché l’artista compie un evoluzione della propria ricerca artistica, approdando a un “ritorno” dell’uso dei colori e degli strumenti pittorici alla base del suo percorso artistico.
L’idea del cretto è semplice, perché è semplice la sua idea: le spaccature sulla superficie non sono soltanto il motivo decorativo dell’opera e che la rende iconica, ma rappresenta anche lo scorrere del tempo, l’evoluzione stessa dell’operato dell’artista.
Nella prossima puntata ci occuperemo di Anton Sminck Von Pitloo e la sua Veduta del golfo di Napoli.
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