Giorgio Gori, classe ‘87, napoletano, artista capocomico di una compagnia eclettica, amante dei classici e del varietà, che si definisce timido e logorroico. Un attore con le idee chiare, diversi progetti in cantiere e direttore artistico del Teatro Lazzari Felici, gestito attualmente da Insolita Guida, e per il quale è stata indetta una raccolta fondi. Della condizione lavorativa degli attori oggi dice:
“Credo che si dovrebbe ripartire proprio dai teatri: restituendogli un valore più ampio, di conseguenza si aiuterebbero gli attori”
Noi del Corriere di Napoli oggi raccontiamo un po’ di lui e dell’ iniziativa solidale di cui è promotore.
L’anticipazione di Giorgio Gori su Instagram
Un caffè con Giorgio Gori
–Buonasera Giorgio, innanzitutto grazie per questa chiacchierata. Dicci qualcosa di te, come inizia il tuo percorso artistico?
-Buonasera Roberta e grazie a te per questa opportunità. Dunque, io ho iniziato nel 1999 frequentando quella che allora era l’Accademia di arte drammatica del teatro Il Primo di Napoli, formandomi su testi prevalentemente classici. Conclusi gli anni accademici, sentivo in me l’esigenza di avvicinarmi ad un teatro diverso, più leggero. Mi cimento così nella stesura di pezzi comici e partecipo ad alcuni concorsi di comicità, riscontrando un discreto successo e ottenendo diversi premi e riconoscimenti.
Nel 2012 ritorno a teatro con una mia compagnia, dedicandomi per i primi tempi ad allestimenti di drammaturghi anglosassoni come Nail Simon, Ray Cooney confrontandomi con uno stile autoriale che mi piace molto. Da qualche anno, invece, ho sviluppato uno spettacolo mio sul genere del varietà, avvalendomi di un corpo di ballo e di attori eclettici, che mi hanno consentito di recuperare una profonda passione per l’avanspettacolo.
-Dall’ Accademia di teatro ad una compagnia tua, come è avvenuto questo passaggio?
-Passando attraverso una lunga e variegata gavetta. Dagli anni in Accademia in poi ho sempre recitato e ho lavorato con grandi artisti dello spettacolo. Ho avuto anche l’onore di fare un lavoro con Ornella Muti, a cui per timidezza non riuscii a chiedere una foto. Insomma se oggi sono un attore comico lo devo a tanti anni di cabaret, tra laboratori e collaborazioni con professionisti del settore. Con la mia compagnia mi diverto a mettere in scena copioni classici, che mi piace stravolgere completamente, e testi miei inediti.
-Cosa avevi in programma la stagione scorsa interrotta dalla pandemia?
-Sarei tornato in scena con un testo di prosa, era in cantiere uno spettacolo sul vizietto. Sentivo che era il momento per me di mettere un po’ da parte il varietà. Tra l’altro un aspetto che mi piace di questa professione è proprio la possibilità di vivere il momento. Pertanto di solito scelgo un testo, e vedo se fa al caso della mia compagnia, altrimenti procedo coi provini. La mia compagnia si caratterizza anche per questo: non si identifica in una cornice e ogni attore deve essere ricordato in quanto professionista e non strettamente parte del mio progetto. Questo ci rende un gruppo versatile che lavora liberamente.
-Sei un attore e sei timido. Cosa avresti fatto se non avessi fatto l’attore?
-Mi sono laureato in scienze politiche, per cui credo avrei intrapreso una carriera da politico, dunque in sostanza sarei stato sempre un attore. Scherzi a parte, la politica è un campo che mi ha sempre appassionato, così come approfondire tematiche di diritto. Ricordo che preparai l’esame di diritto del lavoro dietro le quinte dello spettacolo Cyrano de Bergerac per il quale interpretavo Montfleury. Mi sdoppiavo: ero attore e studente al contempo. Non ti dico che crisi d’identità!
-Come stai vivendo la pandemia?
-La affronto con la consapevolezza di essere fortunato perché non ho le responsabilità di una famiglia e con la speranza di vedere presto risolta questa situazione. Nel frattempo studio, mi dedico alla stesura di nuovi testi e ai lavori che mi sono stati commissionati.
Credo che una cosa che l’attore debba fare in questo momento sia non fermarsi e continuare in qualche modo ad arrivare al pubblico, dirgli “tu non mi vedi, ma io ci sono!”. Questa pandemia ha ampliato quella dimensione precaria che è propria della professione dell’attore, che ti fa fare i conti con contratti a scadenza, con tournée che prima o poi finiscono, con continui provini.
E la situazione è difficile innanzitutto per i teatri, che sono i primi a soffrire limitazioni contrattuali e vincoli di produzione. Credo che si dovrebbe ripartire proprio dai teatri: restituendogli un valore più ampio, di conseguenza si aiuterebbero gli attori.
-A proposito di questo parlaci della raccolta fondi di cui sei promotore.
È circa un anno e mezzo che collaboro con la direzione artistica del teatro Lazzari Felici che è una piccola realtà del centro storico di Napoli che l’anno scorso registrava una propria stagione e cene spettacolo nel fine settimana.
Uno spazio artistico che sorge a un passo dal palazzo che ha dato i natali al grande Pino Daniele, e a cui deve il proprio nome, e che rappresenta un posto per attori più rodati e giovani aspiranti alle prime armi. Questo teatro ovviamente ha costi, bollette da pagare, e la previsione di ridurre del 25 % la platea equivale a non aprire affatto, specialmente dopo un anno di completa chiusura. Non ci avvaliamo di sponsor, convenzioni né di nomi altisonanti, abbiamo solo le nostre idee.
Per questo abbiamo pensato a un crowdfunding, una campagna solidale che ci consenta di arrivare a settembre con le spalle larghe, scongiurando il rischio di chiusura. Sono certo che la gente desideri il teatro, che il pubblico non attenda altro che di rivedere gli attori in scena, ma il punto è “ci saranno ancora teatri quando sarà possibile riaprire?”.
-La scelta di fare l’attore e di non intraprendere una carriera quanto meno più stabile, in forza anche degli studi con cui ti sei formato, hanno mai generato in te una condizione di conflitto?
-Non ti nascondo che molte volte, anche confrontandomi con colleghi e amici attori, l’esigenza di dotarsi di un salvagente si è fatta sentire. Non sono rare le occasioni in cui ho pensato che fosse il caso di riversare su un secondo lavoro, di mollare tutto e di confinare questa attività a un mero hobby. Ma ogni volta mi guardo allo specchio e mi dico che non potrei mai fare a meno del mio lavoro. È troppo forte questa passione, è peggio di una droga e per fortuna posso dire che questo è l’unico anno in cui sono stato fermo in termini lavorativi.
-Talento, vocazione, avventatezza. Cosa ci vuole per fare questo mestiere?
-In primis è necessaria una grande passione, poi senza dubbio occorre una buona dose di talento. Ciò che è imprescindibile è tanto, tanto studio. Se oggi un po’ ho imparato il mestiere è solo grazie ai maestri che ho avuto la fortuna di incrociare sul mio percorso artistico. Io da piccolo sentivo un richiamo per questa arte, e non ero in grado di capire bene cosa fosse.
Una volta che mi sono cimentato con l’intrattenimento, quasi fortuitamente, ho capito che non ne avrei fatto più a meno e studiare i grandi classici, il teatro antico, tomi di storia del teatro non ha mai rappresentato una fatica per me, anzi. A teatro sono così a mio agio che da timido cronico mi trasformo e perdo ogni freno, non c’è nulla che non mi senta di fare in scena.
-Lo scambio col pubblico quanto è utile?
-Il riscontro vale tantissimo in questo mestiere. Senza il pubblico l’attore scende dal palco. L’emozione, la commozione, una risata, o talvolta le lacrime degli spettatori ti ricaricano e ti aiutano a capire se stai procedendo nella direzione giusta.
Una soddisfazione per me è vedere la mia famiglia emozionarsi ancora quando sono sul palco. Attualmente l’unico canale utile per rimanere in contatto col pubblico è quello dei social, che io mi limito a usare solo per ricordare qualche evento o per pubblicare qualche post satirico, perché è importante come dicevo prima, ricordare alla gente che noi attori ci siamo ancora.
-Il teatro in diretta streaming come lo vedi?
-Sentivo qualche giorno fa della proposta del Ministero dei beni culturali circa la prospettiva di una piattaforma streaming per il teatro. Ritengo che se si procedesse in tal senso sarebbe la fine, la “morte del legno”. Non può appiattirsi tutto così. Io credo che ci si debba concentrare di più su come gestire le riaperture.
Bisognerebbe preoccuparsi delle strutture: quante avranno la forza di ricominciare non potendo avvalersi dell’intera capienza disponibile? Il punto sono i costi, i contratti, le categorie da tutelare. Non credo faccia bene a nessuno disarticolarsi e procedere autonomamente secondo le proprie risorse, per cui qualcuno riapre, qualcuno chiude, qualcuno fa lo streaming, qualcuno mezza sala piena. Sarebbe opportuno fare fronte comune e compattarsi in una categoria che vuole vedersi riconoscere i propri diritti. L’obiettivo, a mio avviso, sarebbe portare il teatro allo stesso livello contrattuale della televisione.
-I tuoi riferimenti artistici?
-Viviani è senza dubbio colui che mi ha fatto innamorare della poesia e della napoletanità. Poi ho amato molto il teatro di Pirandello, che quasi preferisco ad Eduardo. Ma se devo individuare un riferimento artistico non posso non pensare a Walter Chiari.
Mi rivedevo molto in lui per il suo essere logorroico e per il tipo di comicità, fatto di battute raccontate più che da freddure. Famoso è un suo sketch in cui impiega circa dieci minuti per raccontare una barzelletta che in realtà ha un testo di pochissime righe. Così ho deciso di approfondire la sua storia e di raccontarla in un mio spettacolo: Giorgio racconta Walter e Chiari si offende. Volevo restituire al pubblico un artista troppe volte dimenticato.
Noi del Corriere di Napoli ringraziamo vivamente Giorgio Gori per questa interessantissima chiacchierata, ed invitiamo i nostri lettori a visitare la pagina di Lazzari Felici e a partecipare a questo crowdfunding che consentirà al teatro di riaprire e avere altre nuove stagioni di successo.
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